Le elezioni che si sono concluse lo scorso 4 giugno sono un’occasione per riflettere sullo stato attuale del gigante asiatico. Allo stesso tempo, tendenze, problemi e prospettive di più ampio respiro vanno ben al di là della pure importante tornata elettorale. In un paese come l’India tutto può apparire fuori scala. Considerate le dimensioni del paese, e dunque la complessità che tali ordini di grandezza sembrano quasi necessariamente implicare, presentiamo qui un’analisi riguardo quattro ambiti chiave: la questione politica in relazione proprio alle elezioni; il progetto del maggiore partito di governo, il Partito Bharatiya Janata (Partito Popolare Indiano, o BJP); la relazione tra economia e sistema democratico; e infine, considerazioni di tipo geopolitico.
Le elezioni hanno confermato il BJP come partito di maggioranza: relativa, tuttavia, non assoluta come invece era accaduto nelle elezioni del 2014 e 2019, quando aveva ottenuto più della metà dei 543 seggi della Lok Sabha, la camera bassa del parlamento. Ora, con 240, ha dovuto formare un governo di coalizione. Ciò non ha impedito a Narendra Modi, leader del BJP, di diventare, insieme a Jawaharlal Nehru e sua figlia Indira Gandhi, l’unico politico indiano a diventare primo ministro in tre differenti mandati. La popolarità di Modi, dato per vincente in tutti i sondaggi, ha spinto varie forze dell’opposizione a coalizzarsi contro il suo BJP. Un’alleanza composita ed eterogenea sotto l’egida del Congresso Nazionale Indiano, lo storico partito dell’indipendenza e a guida del paese per decenni dopo di essa. Il Congresso era stato ridotto ai minimi termini nelle due precedenti legislature. In queste elezioni, tuttavia, sotto la leadership di Rahul Gandhi (figlio di Sonia, nata in Piemonte e a sua volta già presidente del partito), esso ha conquistato 99 seggi. Abbastanza per garantire alla coalizione di opposizione 234 seggi contro i 293 di quella di governo, e impedire modifiche unilaterali della costituzione.
Timori, questi, legati proprio alla figura di Modi. Figura controversa in quanto la sua azione e retorica politica si sono discostate in modo netto dalla tradizione politica nazionale dopo l’indipendenza nel 1947, incarnata invece dal Congresso. I padri fondatori della repubblica indiana, Nehru prima di tutti, intendevano creare uno stato federato per gestire le enormi differenze interne a livello culturale, linguistico, religioso, geografico di un paese-continente. I principi costituzionali indicano come stato secolare, istituzioni democratiche e separazione dei poteri siano elementi fondanti dell’India attuale. Il Congresso non intendeva seguire lo stato gemello Pakistan nel definire la propria identità rispetto all’affiliazione religiosa: se il Pakistan era lo stato per i musulmani del subcontinente, ecco che l’India non poteva essere lo stato per gli indù.
Il BJP ha inteso invece scardinare questa impostazione di fondo, e con essa compromettere anche gli elementi che da sempre descrivono l’India come la più grande democrazia del mondo. Modi ha articolato, in modo più efficacie di Vajpayee, pure primo ministro del BJP tra il 1998 e il 2004, un progetto suprematista indù secondo i principi dell’hindutva. Questo termine indica un’ideologia nazionalista che descrive l’India appunto come paese induista. È vero che i suoi oltre 1,4 miliardi di abitanti sono per l’80% indù. Ma è anche vero che lo abitano pure oltre 200 milioni di musulmani, senza contare poi le minoranze buddhiste, giainiste, parsi, sikh e cristiane (oltre 20 milioni di fedeli). Proprio tali minoranze, specie quella musulmana, sono oggetto di attacchi – neanche velati: la retorica ai comizi del BJP, come nei discorsi ufficiali dei suoi esponenti, può essere violenta e brutale – per presentarli ora come un corpo alieno alla nazione; ora come quinte colonne straniere. Vi sono stati progetti per riformare le regole di mantenimento della cittadinanza, dove alcune comunità (ancora una volta, quella musulmana in primis) avrebbero visto molti perderla del tutto.
Il BJP fa dunque dell’hindutva il cardine del proprio progetto politico: all’unità nazionale da ricercarsi serrando i ranghi di una comune identità indù si accompagna un piano di sviluppo economico. Ancora una volta, la figura di Modi è chiave. Per anni governatore dello stato nord-occidentale del Gujarat, affacciato sul Mar Arabico e confinante con il Pakistan, si è costruito una reputazione proprio in linea con questi elementi. In primo luogo, capace, efficiente e illuminato gestore della crescita economica del Gujarat, il cui sostenuto sviluppo economico egli poteva garantire anche al resto del paese. In secondo luogo, un suprematista indù che, di fronte a pogrom anti-musulmani che nel 2002 fecero circa 2.000 morti, non solo non intervenne, ma che addirittura in qualche modo condonò.
Una volta eletto primo ministro, molti hanno paragonato Modi ad altri leader politici che sembravano rappresentare un populismo di destra: Trump in America, Bolsonaro in Brasile, Erdogan in Turchia, Orban in Ungheria. Allo stesso tempo, altri hanno rilevato come Modi sia in realtà molto più acuto e capace di questi; e che, più che di populismo di destra, invero caratterizzato da basi ideologiche alquanto tenui, Modi abbia fatto proprio un progetto politico molto più concreto e preciso.
Quali risultati ha dato, finora, questo progetto? Possiamo esaminarlo per quanto concerne l’economia indiana e lo stato di salute delle sue istituzioni democratiche. Partiamo dall’economia. È noto come già nel 2023 l’India abbia sopravanzato la Cina per diventare il primo paese del mondo per popolazione. Non solo: mentre la Cina è in piena crisi demografica (ha cominciato a perdere abitanti, sintomo di un invecchiamento precoce e preoccupante della popolazione), l’India continuerà a crescere fino intorno al 2070 secondo alcune proiezioni, raggiungendo 1,7 miliardi di abitanti. Questo implica una popolazione giovane e quindi possibilità di crescita per decenni a venire. Il paragone con la Cina è in qualche modo obbligato. Il Dragone a nord dell’Himalaya è il referente per l’Elefante a sud: la Cina ha conosciuto uno sviluppo senza uguali nella storia in quanto a rapidità. Pure l’India, da inizio anni ’90, ha conosciuto un’importante crescita economica. Ma mentre il PIL dei due paesi era fondamentalmente lo stesso circa 40 anni fa, ora quello della Cina è di oltre 17 trilioni di dollari, mentre quello indiano è di circa 3,6. A cosa dobbiamo questa differenza?
Entrambi i paesi hanno liberalizzato e privatizzato economie che, per buona parte della Guerra Fredda, erano esempi ora di pianificazione di stile sovietico (vedi la Cina), ora di un sistema misto, dove l’intervento statale nella regolamentazione del mercato era fortemente dirigista (vedi l’India).
Tuttavia, una serie di fattori ha impedito all’India di stare al passo con il rivale: in particolare, un sistema incapace di attrarre investimenti esteri e capitali quanto quello cinese. Per paradossale che possa sembrare, proprio il sistema democratico e federale indiano, così attento a bilanciare il potere centrale con quello statale e poi locale, ha creato una burocrazia farraginosa, interessi locali contrapposti a quelli nazionali e l’incapacità di gestire un ‘capitalismo di stato’ sul modello cinese. Il partito comunista in Cina è stato in grado di gestire fonti di credito agevolato a determinate imprese, snellire procedure per attrarre capitali, irretire istanze locali verso progetti di sviluppo nazionale. In India, gli stessi limiti al potere esecutivo propri della natura democratica del paese hanno funzionato come freni nell’attuazione di simili processi.
Modi ha preso nota. L’indebolimento, o la corrosione, delle istituzioni democratiche in India sotto i suoi governi si può leggere anche come il tentativo di rendere più efficiente, in senso manageriale, il sistema-paese. Ma ecco appunto l’accentramento nell’esecutivo (quando non nella figura stessa del premier) di tutta una serie di prerogative; dibattiti parlamentari ridotti al minimo per trasformare in legge decreti; addirittura la rimozione, per mano del presidente della Lok Sabha, di membri dell’opposizione (incluso Rahul Gandhi) per ‘condotta inappropriata’ all’interno della camera, quando le critiche al governo divenivano troppo forti.
Il risultato, dunque, di 10 anni di governo BJP è alquanto controverso. L’economia indiana si sta sì liberando di tutta una serie di problemi che ne hanno frenato lo sviluppo. In particolare, un grande programma di investimenti pubblici a livello infrastrutturale (porti, aeroporti, ferrovie, autostrade) sta cercando di colmare il gap con la Cina. La manifattura è in crescita; percentualmente, sempre meno persone lavorano nel settore agricolo (ora circa il 15%). Gli investimenti esteri sono aumentati: 85 miliari nel 2022, quando erano 45 nel 2015 e addirittura solo 2 nel 2000. Rimangono problemi di disoccupazione, specie giovanile, dato il continuo incremento demografico. L’India rimane poi un importatore netto, soprattutto di energia, il che limita la possibilità di crescita delle riserve in valute estere e di conseguenza l’indebitamento del governo per più investimenti. Gli squilibri regionali, infine, sono importanti: proprio nel nord del paese, il cuore del BJP (gli stati dell’Uttar Pradesh, Rajasthan, Bihar, Haryana), si registrano i tassi di crescita più bassi e in generale minori standard di benessere. Nel sud (Tamil Nadu, Kerala, Andra Pradesh), dove invece i partiti locali legati al Congresso sono più forti, si conoscono fenomeni come la ‘Silicon Valley’ di Bangalore, dove nascono start-up ad alto contenuto tecnologico. E un sud, appunto, dove fa meno presa l’ideologia hindutva, anche in virtu’ di forti identità culturali locali che non si riconoscono nel progetto politico di Modi e del BJP.
Come può porsi l’India a livello internazionale negli anni a venire? Dopo essere diventata la quinta economia del mondo nel 2022, si prevedono tassi di crescita annui intorno al 6% per i prossimi 5 anni: abbastanza per raggiungere i 5 trilioni di PIL, sopravanzando Giappone e Germania per diventare la terza economia globale. Per il 2047, cent’anni dall’indipendenza, Modi vorrebbe avere creato un paese prospero, ovvero a medio reddito: non distante da ciò che è la Cina oggi.
Tutto questo sarebbe funzionale anche alla proiezione estera dell’India. La quale ha sempre mantenuto, storicamente, una posizione alquanto indipendente a livello internazionale. Leader del Movimento dei Paesi Non Allineati, era comunque vicina, date le simpatie socialiste della sua classe dirigente, al blocco sovietico. Come democrazia liberale, ha sempre mantenuto comunque rapporti discreti con il mondo occidentale. È insomma capace di giocare su più tavoli. Lo si vede plasticamente anche oggi. Allo scoppio della guerra in Ucraina, non ha rinnegato, anzi, la vicinanza a Mosca, da cui acquista armi e energia. È di poche settimane fa un caloroso incontro tra Modi e Putin, dove entrambi poterono adoperare retoriche anti-imperialiste che mal celano le proprie ambizioni internazionali. Allo stesso tempo, in funzione anti-cinese, Delhi è stata felice di unirsi al ‘Quad’, un’alleanza sotto l’egida USA con Giappone e Australia proprio per contenere Pechino.
I punti interrogativi permangono: sul deterioramento del sistema democratico, sui problemi legati al tumultuoso sviluppo e differenze interne, sulla spregiudicatezza a livello internazionale. Quello che non è in dubbio è la presenza dell’India quale attore di crescente e ineludibile importanza per decenni a venire.
© Riproduzione riservata