È l’ennesima crisi politica: forse la più grave. Il Pakistan, quinto paese al mondo per popolazione (quasi 250 milioni), ventitreesima economia per potere d’acquisto, e unico paese musulmano dotato di bomba atomica, vive una stagione dove problemi politici, economici e geostrategici si sovrappongono senza apparente soluzione di continuità.
Tutto scaturisce dall’arresto, circa un mese fa, dell’ex primo ministro Imran Khan, al potere dal 2018 al 2022. Esautorato allora con un voto di sfiducia, ha denunciato una cospirazione degli alti ranghi dell’esercito per rimuoverlo: dichiara che le accuse di corruzione e abuso di potere che lo hanno investito, insieme ai dirigenti del suo partito Pakistan Tehreek-e-Insaf (PTI - ‘Movimento per la Giustizia del Pakistan’), sarebbero politicamente motivate.
Quattro colpi di Stato in 70 anni
Il Pakistan ha conosciuto dalla sua fondazione nel 1947 quattro colpi di stato militari (l’ultimo nel 1999 con Musharraf). Questi si considerano i garanti dell’ordine nel Paese. Non esitano ad intervenire nell’agone politico ogniqualvolta ritengono i civili incompetenti e inaffidabili. Quando anche non direttamente al governo, la loro influenza rimane enorme. La figura di Khan, tuttavia, rappresenta un problema nuovo per le forze di sicurezza: dotato di grande carisma e notevole seguito popolare, i suoi sostenitori hanno manifestato in tutto il Pakistan contro il suo arresto, attaccando anche, caso rarissimo, caserme e basi dei militari, ritenuti appunto responsabili dell’accaduto. Le sommosse non si sono spente; il governo civile, sotto la premiership di Shahbaz Sharif, esponente di spicco di una delle più importanti famiglie pakistane e leader dello storico partito della Lega Musulmana, è di fatto ostaggio dei militari, e considerato dai manifestanti complice degli stessi.
La complessa vicenda politica si inserisce poi nella profondissima crisi economica che sta attraversando il Paese. Il Pakistan vanta una discreta produzione agricola nella valle dell’Indo grazie ai ciclici monsoni e vasti sistemi di irrigazione, specie nelle regioni chiave di Punjab e Sindh. Inoltre, vi è una base industriale non disprezzabile, specie nel tessile e in alcuni settori come metallurgia e costruzioni. Ma il Paese rimane dipendente dall’estero per quanto riguarda energia e beni di consumo; la sua industria di trasformazione (per esempio, la giapponese Toyota opera nel Paese da decenni) necessita di input dall’estero. Per mantenere le importazioni relativamente economiche, il Pakistan teneva artificialmente alto il valore della rupia, sostenendo la moneta nazionale tramite riserve in valuta forte. Ma con un deficit commerciale tale tattica non è sostenibile. Di qui le continue richieste al Fondo Monetario per pacchetti di aiuti - prestiti che il Pakistan riesce raramente ad onorare, compromettendone la reputazione creditizia a livello globale. Di qui, anche, il ricorso all’aiuto di Paesi amici, come gli arabi del Golfo; e soprattutto al capitale cinese: la Repubblica Popolare ha investito massicciamente in Pakistan, cardine del progetto delle nuove Vie della Seta, arrivando a detenere il 20% del debito estero di Islamabad.
Le pressioni del Fondo monetario
Al momento del suo insediamento nel 2018, Imran Khan, il quale aveva giurato di non rivolgersi mai più al Fondo, non poteva però che constatare come nelle casse dello stato vi fossero solo 6 miliardi di dollari, sufficienti all’import per circa due mesi. In cambio di ulteriori prestiti, il Fondo richiedeva una liberalizzazione del cambio della rupia, togliere pressione alle casse dello Stato, e al contempo favorire l’export. La rupia nel giro di alcuni mesi passava da 115 a oltre 200 sul dollaro, con conseguente impennata dei prezzi. Poche settimane fa toccava quota 350.
A questa dinamica si andava ad aggiungere una catastrofica alluvione lo scorso agosto (il grafico più sopra ne riassume gli effetti). Un monsone particolarmente intenso ha sommerso circa un terzo del Paese, distruggendo raccolti, infrastrutture, centrali elettriche, bloccando così la produzione industriale in vari settori. Nel momento di massimo bisogno, l’economia ha ricevuto un colpo terribile.
È in questo contesto che si va ad inserire la crisi politica di queste settimane. È ovvio che una ristrutturazione radicale del budget statale dovrebbe andare a ridurre le ingenti spese militari, che incidono per circa il 20% sul bilancio: soldi per infrastrutture, specie trasporti ed energia; servizio del debito estero; istruzione (metà dei pakistani sono sostanzialmente analfabeti; l’inglese, biglietto da visita della dirimpettaia India, è parlato solo da un’élite che non arriva al 10% della popolazione); programmi sociali, in un Paese che conosce ancora una povertà diffusa.
Ma l’esercito non è una istituzione come altre cui si possano togliere fondi. È una gigantesca macchina burocratico-economica, con un proprio fatturato che sfiora i 30 miliardi di dollari (circa il 10% del Pil): oltre all’industria bellica, è presente nel settore bancario, industria, programmi di welfare, sviluppo urbanistico, immobiliare e costruzioni. E, fatto ancora più importante, si ritiene garante della sopravvivenza stessa del Pakistan: non solo dai nemici interni; ma anche e soprattutto da quelli esterni. La rivalità con l’India, non va dimenticato, affonda le radici nella nascita stessa dei due Paesi all’indomani dello scioglimento del Raj Britannico nell’agosto 1947. Il contenzioso aperto sul Kashmir, regione rivendicata da entrambi e al momento divisa secondo un confine de facto ma non de jure (la ‘Linea di Controllo’), rimane una ferita aperta. Non basta. A ovest, il confine con l’Afghanistan dei Talebani, la ‘Linea Durand’, non è mai stato riconosciuto da Kabul. Nel Baluchistan, regione desertica condivisa con l’Iran, vi è un attivo movimento indipendentista. Con Teheran, i rapporti sono pure complessi, dato che il Pakistan è tradizionalmente vicino ai rivali di Riad.
La strada per la democrazia
Tutto questo viene addotto dai militari come ragione per mantenere la propria posizione nel sistema Paese. È un circolo vizioso. La via maestra per un Pakistan più prospero e democratico passa per un fondamentale ridimensionamento del ruolo dell’esercito nella sua vita politica, istituzionale, economica - anche culturale e intellettuale. Questo ridimensionamento è considerato dall’esercito impensabile. Esso metterebbe a repentaglio la stessa statualità pakistana. Crisi dunque strutturale, paradossale omeostasi del Paese.
© Riproduzione riservata