All’indomani della caduta del regime degli Asad in Siria, ci eravamo occupati della situazione interna al paese. Abbiamo assistito in questi giorni ad alcuni sviluppi preoccupanti, come si temeva. Ci sono stati massacri della comunità alawita (percepita come legata al brutale governo ba’thista, e vittima così di vendette indiscriminate). E registriamo il licenziamento di una costituzione provvisoria che accentra i poteri nelle mani del presidente, il nuovo leader Ahmed Al Shar’a. Un documento che lascia dubbi rispetto a libertà fondamentali, parità di genere e rapporti tra le varie confessioni etnico-religiose del paese.
Questo avviene in una situazione di profonda e complessa transizione. La Siria non sta conoscendo solo un cambio di regime, con la necessità di rifondare istituzioni governative e ripristinare un effettivo controllo sul proprio territorio; ma lo sta pure facendo dopo 14 anni di guerra civile, che probabilmente non è ancora finita. Inoltre, vi è un contesto economico devastato da anni di conflitto e sanzioni e una popolazione quasi per metà rifugiata (in Siria stessa o in altri paesi, specie quelli limitrofi come Turchia, Libano e Giordania).
Come se non bastasse, il quadro regionale e internazionale è anch’esso in divenire e caratterizzato da grande volatilità. Proveremo qui a illustrare cosa ha comportato la rimozione di Assad e l’instaurazione del nuovo governo di transizione e quali siano le sfide che le dinamiche regionali e internazionali presentano al paese.
I rifugiati siriani
Gli sconfitti: Iran e Russia
La Siria viene spesso, e accuratamente, descritta come un paese chiave per gli equilibri mediorientali. La caduta di Asad ha comportato uno sviluppo invero clamoroso: l’estromissione dallo spazio siriano dell’Iran e la quasi espulsione pure del potere russo. Entrambi i paesi, per motivi diversi, si erano erti a difensori del regime ba’thista. Per l’Iran, la Siria era un anello decisivo per creare quel corridoio che univa direttamente, passando per l’Iraq, il Libano degli Hezbollah a suoi sponsor di Teheran. Questo collegamento logistico permetteva all’Iran, fondamentalmente, di confinare con Israele, senza che Israele confinasse a sua volta con l’Iran. Poteva rifornire di armi ed equipaggiamento Hezbollah, e provvedere all’addestramento dei suoi miliziani in campi in Siria. Teheran godeva quindi anche di una prossimità territoriale con gruppi armati palestinesi (Hamas e Jihad Islamica) pure allineati con l’Iran in funzione anti-israeliana.
Tutto questo, l’architettura chiave del cosiddetto ‘Asse della Resistenza’ contro Israele, è venuto a crollare. Non basta: negli ultimi mesi, l’Iran ha visto Israele infliggere danni ingenti ad Hamas, decapitare l’intera leadership di Hezbollah, e lanciarsi in radi aerei in territorio iraniano senza che Teheran potesse opporre la minima resistenza. La perdita della Siria è stato dunque l’ultimo, e forse più evidente, segno di ridimensionamento del potere iraniano nella regione, anche se probabilmente non delle sue aspirazioni. Il modo in cui Teheran deciderà di relazionarsi al governo di transizione a Damasco potrà quindi dire molto delle future possibilità di azione del regime iraniano.
La Russia, dal canto suo, paga carissimo la sciagurata invasione dell’Ucraina. Mosca era intervenuta in sostegno diretto ad Assad – con vaste operazioni di bombardamento indiscriminato di zone controllate dai ribelli, provocando migliaia di morti civili – già dal 2015. Questo anche in difesa della base navale di Tartus, sulla costa siriana abitata in prevalenza dagli alawiti di cui sopra, emblema di un rapporto che inizia nel 1971 in epoca sovietica. Unica base russa al di fuori dell’ex spazio sovietico, Tartus è indispensabile per la proiezione di potere russo non solo in Medioriente ma anche in Africa. Proprio nel 2015, poi, Mosca aveva costruito la base aerea di Hmeimim, per supportare le sue azioni militari nel paese. Sembra che, al momento della fulminante azione di Ha’yat Tahrir ash-Sham (HTS), il gruppo jihadista che ha preso il potere a Damasco lo scorso 8 dicembre, non vi fossero in Siria più di 7500 militari russi, di solito sotto la guida di comandanti spediti lì in virtù delle scarse performance sul fronte ucraino. Un contingente che, forse non solo per mancanza di capacità, ma anche di volontà politica, non ha opposto alcuna resistenza all’avanzata di HTS. Quanto questo abbia contribuito allo sfaldarsi dell’esercito siriano rimane una questione chiave: la garanzia russa di supportare regimi autocratici in giro per il mondo ha ricevuto un duro colpo.
Il vincitore: Turchia
Se Russia e Iran si leccano le ferite, il grande vincitore che emerge è invece la Turchia. Non solo per la vicinanza a HTS, e dunque al governo di transizione di Damasco, ma anche per i contrasti decennali con il defunto regime ba’thista, un attore ostile ora rimosso sul fronte sud di Ankara. Una possibilità per occupare quindi questo spazio in modo quasi speculare al ritiro iraniano: spazio che proietta Ankara nel cuore del Medioriente, vicino a Israele e alla questione palestinese. Erdogan ha speso spesso parole di grande condanna per le azioni israeliane dopo il 7 Ottobre e non ha mai fatto mistero di volersi ergere a protettore dei palestinesi.
La questione chiave per Ankara è però un’altra. I curdi delle Forze Siriane Democratiche (FSD) controllano il nord-est della Siria, una regione nota come Rojava: sono legati a doppio filo al Partito Curdo dei Lavoratori (PKK), considerato dai Turchi un’organizzazione terroristica. Sono famosi in occidente per essere stati quelli che, sul terreno, con supporto aereo americano, hanno sconfitto l’ISIS in battaglie chiave come Kobane. Ma per Ankara rappresentano la minaccia costante della formazione di uno spazio indipendente curdo al suo confine sud. Da qui i ripetuti scontri tra FSD e Turchia, specie tramite la milizia dell’Esercito Nazionale Siriano, legato (molto più di quanto lo fosse HTS) ad Ankara. La congiuntura storica per Erdogan per risolvere la questione curda è quindi quasi irripetibile: un governo amico a Damasco, e la recente, e clamorosa, rinuncia alla lotta armata da parte di Abdullah Ocalan, leader in carcere del PKK. Come Damasco deciderà di reintegrare il Rojava nell’ambito dello stato siriano sarà quindi il fattore decisivo per definire la traiettoria politica delle aspirazioni curde nella regione.
Alla finestra: Israele
Altro attore che ha beneficiato della caduta di Asad è Israele. Questo specie per quanto detto rispetto all’Iran, suo rivale principale. Con il precedente regime di Damasco, Tel Avid aveva nel corso degli anni trovato un modus vivendi: due nemici che si conoscevano, e che sapevano quali fossero le reciproche linee rosse. In questo senso, la leadership jihadista ora al potere fa sorgere invece molti dubbi presso i decisori israeliani. L’ideologia di HTS, i cui quadri formano fondamentalmente il nuovo governo di transizione, può ora essere meno influente su scelte più orientate al pragmatismo; ma è un'ideologia che comunque rimane, ed è chiaramente anti-occidentale in senso lato e anti-sionista nello specifico. Israele, per altro, non è rimasta certo a guardare: ha colpito immediatamente dopo l’8 dicembre vari reparti delle forze armate siriane, distruggendo, secondo quanto dichiarato, tra il 70 e l’80 per cento dell’armamento pesante. Contestualmente, ha oltrepassato la zona smilitarizzata sulle Alture del Golan. Tali alture, conquistate da Israele nel 1967, dominano i pendii che scendono fino a Damasco; Israele si è spinta in territorio siriano occupando anche il Monte Hebron (Jabal al-Sheikh), che con 2800 metri è il punto più alto della Siria. Sebbene l’esercito di Tel Aviv abbia dichiarato che si tratta di mosse preventive, difensive e temporanee, si possono nutrire dubbi sulla effettiva volontà di ritirarsi da tali territori. Questione che, al momento ignorata dal governo di Al Shar’a, non potrà che ripresentarsi.
I vuoti politici in Siria
Il grande assente?
In ultimo, consideriamo gli Stati Uniti. Dopo le debacle in Afghanistan e Iraq, il desiderio di Washington è quello di un progressivo disimpegno dal teatro mediorientale. Ma in Siria, l’America si era trovata obbligata con Obama a inviare truppe speciali per dar man forte dal cielo nella lotta contro l’ISIS, appoggiando appunto i curdi sul terreno. Da allora, circa mille soldati americani sono rimasti, anche perché l’ISIS, sconfitto quale forza militare e politica tout-court, è ancora attivo come gruppo terrorista e criminale.
La nuova amministrazione di Trump ha confermato che la Siria non è un paese chiave per gli USA: un modo per dire ad alleati come Israele e paesi del Golfo, Sauditi in primis, che hanno la libertà (ma anche il dovere) di prendersene cura. In funzione anti-iraniana, certo, per impedire una ri-articolazione dell’Asse della Resistenza; ma anche anti-turca, attore in teoria pure alleato degli Americani ma che ha mire, sostenute da capacità notevoli, alquanto indipendenti.
Quello che gli USA potrebbero fare è iniziare un processo a livello internazionale per la rimozione delle sanzioni economiche sul paese – in un momento in cui si dice che il 90% della popolazione viva sotto la soglia di povertà, in una disastrosa situazione che contribuisce a malcontento e instabilità politica. Non facile in questa fase di grande confusione americana dato il carattere dirompente, imprevedibile e avverso ad azioni multilaterali della nuova amministrazione. Ma poiché tali sanzioni erano state applicate al regime di Assad, non vi sarebbe tecnicamente ragione per tenerle in vita con un nuovo governo.
In ultimo, e legato alla questione della rimozione delle sanzioni, vi è la designazione di HTS come gruppo terrorista. Sebbene questo sia stato formalmente sciolto una volta giunto al potere, rimane il fatto che, come accennato, l’attuale leadership siriana provenga da tale formazione. Tale designazione complica enormemente contatti diplomatici ufficiali con il governo di transizione, riduce la capacità di inviare aiuti umanitari e ratificare accordi, e in generale di riammettere la Siria quale membro tout-court della comunità internazionale. È vero che rimangono dubbi legittimi sulla natura del nuovo governo di transizione. Ed è vero che la Siria resta un paese a sovranità limitata, ancora alla mercé di potenze straniere e con un controllo flebile del territorio. Ma una persistente marginalizzazione non risolverà alcuno di quei problemi.
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