Lo scorso 2 agosto, la speaker della Camera statunitense Nancy Pelosi ha vistato Taiwan. L’evento ha segnato un ulteriore e deciso inasprimento dei rapporti tra Washington e Pechino rispetto alla questione taiwanese. Il motivo del contendere, ovvero lo status internazionale dell’isola e il suo futuro, sono una sineddoche dello scontro tra le due potenze: una parte - il caso Taiwan - per indicare il tutto - il confronto tra Usa e Cina. È intorno a quest’isola che gli strateghi e decisori di entrambi i paesi pensano si giochi la partita più importante: mantenimento del potere globale americano, o compimento dell’ascesa del dragone cinese.
Fino al 1972 Taiwan è la sola Cina riconosciuta dal blocco occidentale, santuario del Kuo Ming Tang sconfitto dai comunisti di Mao nella guerra civile. Taipei non riconosce il governo insediatosi a Pechino il primo ottobre del 1949. Reclama sovranità sull’intero territorio nazionale. Speculare quanto sostenuto dal Partito Comunista Cinese (Pcc): governo legittimo a Pechino, che reclama sovranità sull’intero territorio nazionale, e dunque considera Taiwan una provincia ribelle.
La mossa Nixon-Kissinger
Proprio quell’anno questa contrapposizione viene riconfigurata con una delle più audaci mosse nella storia diplomatica: Nixon e Kissinger aprono alla Cina comunista. Una decisione in chiave anti-Sovietica, che sfruttava appieno il solco andatosi a creare dalla fine degli anni ’50 tra i due paesi simbolo del socialismo mondiale. Gli Usa riconoscono ufficialmente Pechino. Ammettono la Repubblica Popolare quale membro del Consiglio di Sicurezza Onu, con la contestuale esclusione della Repubblica di Cina (Taiwan) che, come fedele alleato durante la guerra contro il Giappone, l’aveva occupato fino ad allora. Contestualmente, inaugurano la politica di ‘ambiguità strategica:’ riconoscono il principio di ‘una sola Cina,’ ma non ammettono un’annessione forzosa di Taiwan da parte di Pechino. Questo si traduce in una situazione politico-giuridica sui generis: gli Usa riconoscono de jure una sola Cina, ma allo stesso tempo si adoperano per impedire che Pechino possa esercitare de facto sovranità sull’isola. Che rimane dunque a tutti gli effetti pratici uno stato indipendente, riconosciuto per di più da circa 15 altri paesi della comunità internazionale.
Da allora, la politica di ambiguità strategica ha garantito un certo equilibrio: la potenza militare americana era deterrente sufficiente per tenere a bada i progetti di Pechino verso la riunificazione del paese. Inoltre, la Cina era concentrata sulla crescita economica. Ambizioni politiche erano relegate in secondo piano rispetto all’incremento del Pil. Taiwan, dal canto suo, si unì già dagli anni ’70 alle ‘Tigri Asiatiche.’ Insieme a Hong Kong, Corea del Sud e Singapore si propose come modello di sviluppo: statalismo e protezionismo per poi aprirsi al mercato mondiale. A fine degli anni ’80 terminava la lunga dittatura del Kuo Min Tang: da allora, Taipei è divenuta una solida democrazia liberale.
Una posizione strategica
Cosa pone dunque il caso Taiwan al centro di una contesa globale? Consideriamo innanzitutto la sua posizione geografica. La presa di Taiwan permetterebbe alla Cina di scavalcare la cosiddetta ‘prima catena di isole:’ dalle isole Kuril a nord, poi giù verso il Giappone, scendendo quindi per le isole Ryukyu (con Okinawa), poi appunto Taiwan e le Filippine, fino al Borneo. Questa serie di isole e arcipelaghi chiudono l’accesso cinese all’oceano; e sono tutte sotto controllo americano: diretto (con basi militari) o indiretto (tramite alleanze con i governi locali). Qualsiasi progetto di proiezione di potenza a livello globale (e non solo regionale) passa forzatamente per l’accesso libero agli oceani. Un accesso che la Cina ora non ha. Gli Americani possono anzi sfruttare una posizione geostrategica di totale dominio sui mari rivieraschi cinesi, e inibire così i progetti di Pechino sul nascere. Taiwan permetterebbe di ovviare a tutto ciò: la sua costa orientale dà direttamente sul Pacifico - accesso che è condizione sine qua non per porsi come potenza globale.
La geografia, chiaramente, non potrebbe però spiegare da sola l’inasprimento della contesa cui stiamo assistendo in questi tempi. Dobbiamo considerare due dinamiche. La prima è il combinato disposto di sviluppo economico e senso di sé che la Cina ha maturato. Il paese ha raggiunto finalmente dimensioni economiche le consentono di porsi come potenza globale. Anzi: nella retorica nazionalista, di ritornare ad esserlo. Un sentimento che a ben vedere precede il mero aspetto materiale. L’espressione ‘secolo delle umiliazioni’ si riferisce all’assoggettamento, nel corso dell’Ottocento, della Cina imperiale da parte delle potenze occidentali. Un’immagine potente, che nutre sentimenti revanscisti largamente diffusi nel paese, soprattutto nella sua classe dirigente. Già ora seconda economia del mondo, la Cina ritiene di dover ottenere uno status politico di pari livello. Ciò non è appunto possibile senza la conquista di Taiwan, vulnus orribile maturato appunto durante il secolo delle umiliazioni: alle considerazioni geostrategiche si somma dunque il nazionalismo cinese.
Nella scia del Grande Timoniere
In secondo luogo, la Cina si trova in una fase cruciale in relazione a tali ambizioni: a livello dirigenziale e di leadership; a livello economico; e a livello demografico, in crescente ordine di importanza. Iniziamo dal fattore leadership. Xi Jinping, al prossimo congresso del PCC che si aprirà il 16 ottobre, tenterà di ottenere un terzo mandato presidenziale. Fatto senza precedenti, interromperebbe la rotazione tra le varie correnti del partito alla testa del paese che è stata la regola dalla fine dell’era maoista. Xi ha accumulato enormi poteri - secondo alcuni analisti, ancor più estesi di quelli del Grande Timoniere. Ha imposto a partito e paese la sua visione, per non parlare di un culto della personalità. Si gioca dunque credibilità e futuro (e, oseremmo dire, anche posto nei libri di storia) sui risultati che la sua leadership personalistica e autoritaria potrà vantare. Rispetto a Taiwan, si è prodotto in una dichiarazione di grande effetto: l’annessione dell’isola entro il 2049, quando si dovrebbero celebrare i cento anni della Cina comunista. La leadership di Xi va quindi ad inserirsi nella questione economica.
Dopo anni di crescita tumultuosa, nell’ultimo lustro la Cina ha cominciato a rallentare: comprensibile, dato che economie vieppiù sviluppate tendono ad avere tassi di crescita inferiori ad economie emergenti, specie se di prima industrializzazione come era la Cina. Ma a questo si è aggiunto l’impatto del Covid. La Cina ha sviluppato due vaccini: ma sono entrambi incapaci di combattere le varianti del ceppo originale. Al momento, sono all’atto pratico inutili. Per contenere il virus, la dirigenza del partito ha perciò adottato una politica di contenimento totale: lockdown immediato in aree con focolai. Le conseguenze per l’economia sono facilmente immaginabili: città come Shanghai (principale centro finanziario, commerciale e logistico del paese) hanno subito chiusure prolungate, con impatti tremendi per ogni comparto. Ma Xi ha messo la faccia su questo approccio anti-Covid, dichiarando a più riprese la sua superiorità sulle misure occidentali (di riflesso, non ha mai contemplato un accordo per l’acquisto di vaccini efficaci come Moderna o Pfizer). Non può tornare su suoi passi, anche a costo di vedere l’economia a tassi di crescita al di sotto di quanto previsto o proclamato (dal 5% ci si attesterà intorno al 3% per il 2022). Consenso e tenuta del regime dipendono in larga misura dal mantenimento di standard di vita cui specie le metropoli costiere si sono abituate; e alla loro espansione a settori del paese ancora arretrati. La congiuntura economica mina questi obiettivi.
2030, la crisi demografica
In ultimo e più importante, la Cina ha iniziato un terribile tracollo demografico. Industrializzazione e urbanizzazione, aumento degli standard di vita, 36 anni di politica del figlio unico: entro il 2030 ci saranno più pensionati che lavoratori nel paese; prima di fine secolo, la Cina avrà meno della metà della popolazione attuale. Tutto ciò implica meno consumi e investimenti, contrazione dell’economia, e quindi calo del potere cinese che si poggia su di essa. La leadership del Pcc ne è consapevole . La Cina, in altre parole, deve imporsi ora: il futuro non è più roseo del presente. Taiwan è appunto passaggio obbligato in tal senso.
La persuasione con Taipei non ha funzionato. Ciò avrebbe permesso a Pechino di reintegrare l’isola aggirando i limiti posti dalla dottrina di ambiguità strategica americana. Ma Taipei ha visto il modello ‘Un Paese-Due Sistemi’ naufragare ad Hong Kong, proprio di fronte alle sue coste. Sotto il controllo di Pechino, la ricca città stato ha infatti progressivamente perso le libertà costituzionali di cui godeva una volta riunitasi alla madrepatria nel 1997, nonostante garanzie in senso opposto. Taiwan non si aspetterebbe altro nel caso di riunificazione con la Repubblica Popolare.
I dubbi sull'opzione militare
Rimane per Pechino l’opzione militare. La marina cinese è cresciuta enormemente negli ultimi 30 anni. Dispone di più di 600 navi. L’esercito è il più numeroso al mondo in termini di effettivi. Ma la quantità non è tutto. In primo luogo, la conquista di Taiwan comporta necessariamente un’operazione anfibia: forse la più complessa a livello logistico-militare. I cinesi non hanno esperienza in questo tipo di operazione. Per di più, dovrebbero attraversare un braccio di mare difeso - come ha dichiarato Biden a domanda diretta - dalla marina Usa e, con ogni probabilità, anche da quella giapponese: la prima e la seconda al mondo come capacità e potenza. Gli oltre 600 vascelli cinesi non devono trarre in inganno: sono, in generale, di dimensioni e capacità ridotte rispetto a quelli americani. Inoltre, vi è il fattore umano. A livello di propensione e dottrina, la Cina non è mai stata una potenza marittima. Sta cercando di diventarlo, ma non è obiettivo raggiungibile nel medio, figurarsi nel breve, periodo. Non basta. Non è abituata alla guerra, terrestre o marina che sia. Dal 1979 non ne combatte una (contro il Vietnam), che pure perse. Non si tratta solo di vedere come si comporterebbero i soldati sul campo (come addestramento, motivazione, disciplina, etc.). Ma anche di come reagirebbe la popolazione civile allo sforzo bellico: economico certo, poi sentimentale ed emozionale, con la morte di soldati al fronte.
A Washington hanno infatti simulato un’invasione cinese di Taiwan oltre lo Stretto (i cosiddetti ‘war games’). Taiwan ha un esercito preparato e tecnologicamente molto avanzato. Gli Usa e gli altri alleati, come accennato, sarebbero al suo fianco. La mera potenza di fuoco cinese darebbe via ad uno scontro con migliaia di morti da entrambe le parti. L’isola però non sarebbe conquistata.
In risposta alla visita di Pelosi, Pechino si è prodotta in manovre militari tutte intorno all’isola per dimostrare di poterla accerchiare e, potenzialmente, strangolare. Taiwan dipende su export e approvvigionamento di materie prime per la sua sopravvivenza. Ma ai decisori di Pechino e Washington non sarà sfuggita la drammatica ironia di quella performance: la Cina si trova esattamente nella situazione di Taiwan. La sua sopravvivenza dipende da accesso ai mercati esteri e dall’approvvigionamento energetico, che dipendono entrambi dal controllo dei mari. Controllo che appunto Pechino non ha, a differenza di Washington, e che cerca proprio tramite la conquista di Taiwan. Gli Usa subirebbero perdite tremende in un confronto militare per Taiwan. Ma avrebbero la capacità di imporre un blocco che strangolerebbe di fatto la Cina.
Di qui le esitazioni cinesi. È stato osservato che forse, a differenza di una competizione per l’egemonia globale tout-court, la Cina potrebbe concepire la sua ascesa come ‘secondi a nessuno’: ovvero in posizione paritaria, non superiore, rispetto agli Usa. Tuttavia, anche in quella prospettiva, Taiwan rimarrebbe imprescindibile per Pechino. Il futuro della Cina e dunque del mondo passa per la piccola isola.
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