Bravi, i più bravi al mondo, ma molti ricercatori italiani scelgono di lavorare all’estero e di portare con sé il tesoretto dei Consolidator Grants, le borse di studio dell’European Research Council (Erc), che assegnano ai ricercatori premiati fino a 2 milioni di euro, per un periodo di 5 anni. In totale fanno oltre 655 milioni riservati a ricercatori che abbiano almeno 7 anni di esperienza dopo il dottorato. I fondi assegnati dall’Erc ai vincitori devono essere spesi in un’istituzione di ricerca europea o di uno dei Paesi associati al programma.
E qui sorgono i problemi dell’Italia
I dati del 2020 dicono che su 327 vincitori a livello europeo (allargato ad alcuni altri Stati come Israele) gli italiani sono 47, posizionando così il nostro Paese al primo posto nelle statistiche sulle 39 nazionalità partecipanti (a seguire, Germania e Francia), ma con il non insignificante dettaglio che questi ultimi due Paesi riescono a mantenere i ricercatori all’interno dei propri confini nazionali molto meglio dell’Italia.
Sul totale dei vincitori italiani, infatti, solo 17 scelgono la penisola come sede delle proprie ricerche mentre gli altri 30 lavorano all’estero.
Con 47 progetti vincitori i ricercatori italiani precedono i colleghi tedeschi (45), francesi (27), inglesi (24), e distanziano gli spagnoli, gli olandesi (21) e gli irlandesi 20. Rispetto all’anno passato i vincitori italiani sono raddoppiati (erano 23). Dato interessante di quest’edizione Erc è anche la perfetta distribuzione di genere dei vincitori italiani; uomini e donne sono pari, mentre negli altri Paesi prevalgono quasi sempre gli uomini (in totale 206 a 121). Infatti, dei 47 vincitori italiani, 23 sono donne. E sono più del doppio delle ricercatrici premiate in Germania, seconde in questa graduatoria orientata per genere.
Il rovescio della medaglia
È rappresentato dal fatto che guardando i dati relativi agli enti in cui fare le ricerche (le proposte selezionate in tutta Europa sono state 327 su 2.506) Germania e Regno Unito guidano il gruppo con 50 riconoscimenti a testa, seguiti da Francia (34) e Olanda (29); 30 borse di studio sono state vinte all'estero, e renderanno migliori università straniere (come l'Accademia austriaca delle scienze, l'Università di Basilea, l'Istituto di tecnologia di Zurigo, l'Università di Lugano e quella di Friburgo, il Cnrs francese).
Nel complesso, l’Italia si posiziona all’ottavo posto, a pari merito con Israele, con 14 enti italiani ospitanti e 17 premi vinti da "host" italiani: dall'Università di Torino a quella di Parma, dall'Università di Verona all'Alma Mater di Bologna, da Roma Tor Vergata all'Istituto nazionale di Astrofisica all'Istituto europeo di oncologia.
La scelta di restare all’estero
Ma perché così tanti ricercatori italiani si fermano all’estero? «Per me – spiega Federico De Martino, 41 anni, laurea a Roma, dottorato in Olanda, esperienza triennale negli Stati Uniti e poi rientro stabile in Olanda che fanno 16 anni all’estero – è solo un fatto legato alle opportunità di lavoro che vengono offerte. E qui a Maastricht si lavora e si vive bene». De Martino, una laurea in ingegneria elettronica, si occupa di neuroscienze per capire come funziona il cervello sano; in particolare il suo campo di azione, che approfondirà con il finanziamento Erc, indaga la percezione dei suoni nel contesto di altri suoni. Per capire un fatto che appare straordinario: e cioè che il cervello è in grado di predire quello che sentiremo. Cioè “sente” parole che non abbiamo ancora detto o musiche che ancora non sono state suonate.
«Per fare ricerche in questo campo – spiega De Martino – serve una macchina per la risonanza magnetica molto potente e a Maastricht c’è peraltro, a differenza di quel che accade in Italia, non compressa in ambito clinico, dove le esigenze dei pazienti prevalgono per forza su quelle della ricerca. In questo senso io ribadisco che vado dove ci sono opportunità di ricerca reali, con strumentazioni adeguate. Macchinari di questo tipo in Italia ci sono, a Pisa ad esempio, e se l’Italia offrisse opportunità certamente le coglierei».
Il punto di partenza resta comunque che i ricercatori italiani sono tra i migliori al mondo per l’università che hanno alle spalle.
«Noi italiani siamo bravi, spesso bravissimi, perché – spiega ancora De Martino - abbiamo solidi studi universitari alle spalle e le università italiane sono tra le migliori al mondo; poi è vero che spesso i ricercatori si devono spostare ma entro certi limiti ciò è normale. Il problema è che in Italia tutto sembra più complicato, specie all’inizio del percorso di ricerca». Insomma, tornare in Italia non può essere solo un fatto legato a incentivi fiscali, come si fa per attirare i ricercatori valutano il ritorno in patria, ma deve essere in stretta connessione con le opportunità fornite.
Per Luca Carra, segretario del Gruppo 2003 per la Ricerca Scientifica (l’associazione che riunisce i ricercatori italiani più citati al mondo) e direttore di Scienzainrete, quanto accade con i grant Erc dimostra l’ottima preparazione dei ricercatori, ma anche la bassa capacità delle istituzioni italiane di trattenere i migliori. E poi chi vince un grant Erc non decide all’improvviso di fare ricerca fuori dall’Italia perché in molti casi si tratta di persone che vivono e lavorano già da tempo all’estero.
Un report Istat relativo ai dati 2019 indica che la quota di laureati tra i 30-34enni in Italia è del 27,6%: siamo penultimi in Europa, dove la media è del 41,6%. Di quella stessa popolazione è occupato solo il 78,9%: un dato 8,8 punti al di sotto della media UE e che, come ha sintetizzato l’Istat, è indice di un mercato del lavoro «che assorbe con difficoltà e lentezza il giovane capitale umano più formato del paese». E a proposito di emigrazione: l’ultimo studio Almalaurea sul profilo dei dottori di ricerca 2019 ha riportato che il 72,7% dei Ph.D. italiani ritiene che per il proprio settore disciplinare ci siano maggiori opportunità lavorative all’estero.
Una vita tra Germania, Olanda e Italia
Tuttavia andare all’estero è un cursus “normale” per un ricercatore che può “oscillare” tra le sedi. Milena Bellin, tre anni post laurea in Germania e sette in Olanda, per esempio, dimostra come si possa fare ricerca tra Olanda e Italia e, come, dopo aver vinto un grant da 2 milioni presso l’università di Leiden, ora stia conducendo le sue ricerche - in tema di cellule staminali umane per la cura di malattie cardiache ereditarie - presso il laboratorio dell’università di Padova in cui si è laureata. «Sto negoziando con l’università di Padova - speiga Michela Bellin - per avere le posizioni e gli spazi che servono e spero proprio che riusciremo a trovare la quadra così da poter svolgere le mie ricerche in Italia pur continuando ad avere un rapporto molto stretto con l’ateneo di Leiden».
E aggiunge: «Spesso solo i finanziamenti nazionali non sono sufficienti per fare ricerca. E questo vale anche per un paese come l’Olanda dove le la ricerca è sostenuta molto più che in Italia».
Al progetto di Milena Bellin lavorano in totale dieci ricercatori tra Olanda e Italia che inizieranno la loro operatività una volta che anche i certificati etici saranno a posto.
Il ritorno dagli Stati Uniti a Torino
E se molti stanno all’estero, alcuni tornano. È il caso di Chiara Ambrogio, ricercatrice del Centro di Biotecnologie Molecolari dell’Università di Torino. Il progetto, premiato dall’European Research Council, riguarda lo studio delle mutazioni del gene KRAS, tra le principali cause del cancro ai polmoni, al pancreas e al colon. Chiara Ambrogio è il classico caso di un talento di «ritorno».
Dopo una laurea in biotecnologie mediche e un dottorato in immunologia e biologia cellulare all’Università di Torino, si è trasferita a Madrid nel 2009 per lavorare al Centro Nacional de Investigaciones Oncológicas. Nel 2016 si è spostata negli Stati Uniti, al Dana-Farber Cancer Institute Institute di Boston. L’anno scorso ha creato un gruppo di ricerca all’Università di Torino tornando a svolgere la sua attività scientifica nel nostro Paese. «Questa del grant Erc è una grande opportunità per portare avanti progetti di ricerca di valenza internazionale nel nostro Centro – ha spiegato la studiosa - oltre a essere un’occasione per dare visibilità a tutto l’Ateneo».
Tanti italiani all’estero anche negli Starting grant
E se gli italiani fanno il pieno nei Consolidator grant, non tanto diversamente sono andare le cose per gli Starting Grant 2020, premi che finanziano i migliori progetti di ricerca di chi ha ottenuto il dottorato da 2-7 anni, con borse che arrivano a 1,5 milioni di euro e coprono fino a 5 anni di ricerche. Dei 3.272 progetti presentati ce l’hanno fatta in 436 – appena il 13,3% – e ben 53 grant sono stati accordati a ricercatori italiani, che si sono classificati secondi in Europa per nazionalità dopo i colleghi tedeschi. Un grande risultato per l’Italia, ma solo a metà: infatti, il paese nel suo insieme si è piazzato al decimo posto perché solo 20 vincitori (i dati non distinguono tra italiani ed europei) l’hanno scelto come base per il proprio progetto. L’Italia registra così un saldo negativo verso l’estero di 33 borse. Dal 2016 a oggi, abbiamo “perso” verso l’estero in media 23 Starting Grant all’anno, una quota sempre superiore al 50% delle borse vinte da italiani, con punte di oltre il 60%. Tra i grandi paesi europei con cui possiamo confrontarci, nessuno ha risultati simili. Quest’anno, la Spagna ha “perso”, in proporzione, solo il 17,8% delle borse ottenute dai suoi ricercatori, la Germania il 13,7%. E se la Francia è sostanzialmente stabile, altri Paesi attirano cervelli. In Regno Unito, nonostante Brexit, arriveranno 36 borse aggiuntive, più di tutte quelle vinte da britannici, che sono 26. I Paesi Bassi segnano +19, la Svizzera (un paese associato) +24.
L’Italia deve essere più attrattiva
In conclusione, i problemi per l’Italia sono due: la perdita di ottimi giovani ricercatori che non è compensata dall’arrivo di altrettanti colleghi europei e un flusso di Starting grant che va (quasi) solo verso l’estero. E questo avviene nonostante esistano alcune iniziative ideate per attrarre i vincitori dei diversi tipi di grant Erc, o per preparare potenziali candidati di università italiane. Infatti, dal 2016 esiste il bando del ministero “FARE Ricerca in Italia”, che offre agli Erc grant e che lavorano in Italia un finanziamento aggiuntivo che arriva fino al 20% della borsa europea. Alcune università, dal canto loro, lavorano per reclutare i vincitori di ERC e cercano di dare i mezzi ai propri ricercatori per essere competitivi nel processo di valutazione dei progetti di ricerca. La Statale di Milano, per esempio, finanzia i propri candidati che sono arrivati all’ultima fase della valutazione Erc senza vincere la borsa, offrendogli fondi per la ricerca e rafforzando la loro posizione in vista di una possibile seconda application.
Nel frattempo, il 15 dicembre scorso il Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica) ha approvato il Programma nazionale per la ricerca (Pnr) 2021-2027, documento che orienta le politiche della ricerca in Italia definendo priorità, obiettivi e azioni con l'obiettivo di favorire la coerenza, l’efficienza e l’efficacia del sistema nazionale della ricerca.
Speriamo che non diventi l’ennesima occasione sprecata.
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