La sovranità alimentare entrata di diritto nella denominazione del ministero dell’agricoltura del governo Meloni non c’entra con questo primato. L’agricoltura e
l’industria di trasformazione dei prodotti della terra se lo sono guadagnati sul campo. «L’agroalimentare è il primo settore dell’economia Italia». Lo certifica il rapporto realizzato dalle fondazioni Edison e Argentina Altobelli e presentato di recente al congresso nazionale della Uila, il sindacato della Uil nell’agroalimentare.

Centosettanta pagine piene di grafici e tabelle per spiegare quanto è forte questo campione dell’economia italiana costruito su una somma: l’agricoltura più l’industria degli alimentari, bevande e tabacco. Così l’agroalimentare risulta primo per numero di occupati (1 milione e 408 mila), per valore della produzione (205 miliardi di euro) e valore aggiunto (65 miliardi). Precedendo sempre, nell’ordine, la metallurgia e la meccanica. E poi i mezzi di trasporto e il tessile.

La svolta in una somma

«Non è consuetudine dal punto di vista statistico e dell’analisi economica, considerare unitariamente l’agricoltura e l’industria alimentare, che vengono di norma trattate separate. In tal modo però si perde di vista la dimensione complessiva di una filiera che vede l’Italia primeggiare nel mondo ben oltre i dati conosciuti», sottolineano Marco Fortis, direttore e vicepresidente di Fondazione Edison e Guido Majrone, presidente di Fondazione Argentina Altobelli.

Dario Peirone, del dipartimento Giurisprudenza dell’università di Torino, che coordina due progetti nel settore del food finanziati dall’Eit food, l’istituto europeo per l’innovazione e la tecnologia dell’Ue, concorda: «Gli altri Paesi già lo fanno. Per quasi tutti il food system mette insieme i numeri dell’agricoltura con quelli dell’industria di settore perché rappresentano un unico sistema. E non potrebbe essere diversamente».

Tutti i grafici sono ricavati dal rapporto "Il settore agroaliementare italiano" delle Fondazioni Edison e Argentina Altobelli

Le 158 eccellenze mondiali

Una filiera da record. Capace di primeggiare nel mondo. Un esempio? Su un migliaio di prodotti (941 per la precisione) scambiati a livello mondiale per i quali esistono statistiche omogenee per tutti i Paesi, l’Italia figura ai primi posti cinque posti per miglior bilancia commerciale in 158 voci merceologiche, in pratica uno ogni sei, generando un surplus di 33 miliardi di dollari. Sono il “nocciolo duro” del nostro export agroalimentare che ha superato per la prima volta i 50 miliardi nel 2021, toccando quota 52. E da due anni l’interscambio è passato in positivo facendo registrare un attivo di circa 3,5 miliardi di euro.

«Un fatto storico dopo che era sempre stato in deficit a causa della nostra cronica dipendenza dall’estero per alcune commodities di base come i cereali foraggeri, la soia, gli animali vivi, il pesce fresco e il latte», si sottolinea nella ricerca. Peirone rincara la dose: «Sulle cifre assolute ci sorpassano altri Paesi. L’Olanda per esempio, pur essendo più piccola dell’Italia. Tutta colpa del gap tecnologico che ci divide. Da noi l’innovazione è ancora poca cosa. Adesso speriamo che il Pnrr che punta molto sullo sviluppo tecnologico ci dia una mano. E anche l’avvio di Agritech, l’agenzia per l’innovazione in agricoltura, che ha sede a Napoli, dovrebbe contribuire a far spazio più spazio alla tecnologia. Che garantirebbe grossi vantaggi. Penso per esempio agli allevamenti che oggi tra i principali imputati di inquinamento potrebbero diventare con l’aiuto della tecnologia esempi virtuosi di economia circolare. Ecco perché anche con un maggior coinvolgimento delle università bisogna creare sempre di più un sistema integrato anche in agricoltura».

I formaggi, un altro tesoro dell'Italia molto apprezzato all'estero: qui un caseificio dove si produce parmigiano

I magnifici sette del made in Italy

Tra i prodotti di punta del made in Italy figurano quelli che le fondazioni Edison e Altobelli hanno definito i magnifici sette, in rigoroso ordine per valore di export: ortaggi, frutta e loro preparazioni, i vini, pasta e riso, formaggi e latticini, prodotti da forno, cioccolata e sue preparazioni, conserve animali (per esempio i salumi cotti).

 

 

L’export complessivo di queste sette categorie è stato nel 2021 di 31 miliardi, con un surplus commerciale di 20 miliardi. Una sorta di mix dove grandi produzioni e produzioni di nicchia vanno a braccetto sotto il segno tricolore. Ne è convinto Andrea Macchione, amministratore delegato del Polo del gusto, creato dal gruppo Illy: «La prima carta dell’Italia? La ricchezza della nostra agricoltura. Una biodiversità che altri Paesi non hanno e la qualità dei prodotti. Il risultato sono autentiche eccellenze. E dove la materia prima è di importazione come nel caso del cacao diventa vincente la lungimiranza di certi imprenditori, l’ingegneria di prodotto e la capacità manifatturiera. Le faccio l’esempio di Domori, la nostra fabbrica di cioccolato. Abbiamo recuperato il Criollo, il cacao dei Maya, una varietà molto rara. Oggi la produciamo in una nostra piantagione in Ecuador e la trasformiamo nella nostra fabbrica di None: un innovativo processo di produzione a basso impatto».

Sette miliardi da vini e spumanti

Dal rapporto delle fondazioni Edison e Altobelli escono anche alcune curiosità. Per esempio l’Italia presenta il secondo surplus commerciale al mondo per i formaggi (2,1 miliardi di dollari) dopo i Paesi Bassi e il valore dell’export trascinato da grana, parmigiano, mozzarelle e gorgonzola è aumentato del 40 per cento in dollari negli ultimi quattro anni. E ancora: siamo tra i leader nel mondo nei prodotti da forno grazie anche a 600 milioni di cialde, 867 di dolci confezionati (biscotti esclusi) e 720 milioni di pizze e torte salate.

Un altro primato? Oltre sette miliardi di euro sulla bilancia export sono frutto della vendita di vini e spumanti. Anche per queste ragioni il “made in Italy” attrae sempre di più l’attenzione di società e grandi gruppi stranieri. Pronti a fare shopping. Come dimostra la recente acquisizione di Pernigotti da parte di Jp Morgan. «La concorrenza straniera non spaventa. Tra l’altro non c’è neanche il rischio che delocalizzino perché un cru di Barolo puoi solo averlo nelle Langhe – aggiunge Macchione –. E in fondo contribuisce a crescere l’appeal del made in italy. Ci sono ancora potenzialità di crescita. Il nostro gruppo ne è un esempio. Ma credo serva maggior collaborazione tra istituzioni e aziende. Indicherei la Francia come modello sulle tecniche di rappresentanza internazionale. Le ambasciate sono il miglior supporto per le imprese francesi nei vari mercati».

Non solo boutique dei sapori

Peirone, che da un paio d’anni è anche al timone del Ceip, il Centro per l’internazionalizzazione del Piemonte, distingue: «Va bene difendere e valorizzare
l’eccellenza, ma non mi limiterei a ragionare solo in ottica di boutique dei sapori. Faccio un esempio: l’Emilia Romagna a differenza di Piemonte o Toscana non ha una sua razza di carne. Eppure li opera un gruppo come Cremonini che ha saputo diventare uno dei più grandi produttori internazionali nel settore. Quel che conta è preservare la qualità. Anche con i grandi numeri».

Lo studio svela anche quali sono le province capitali dell’agroalimentare. E al primo posto in più di una scheda figura il Cuneese. Prima per export di prodotti alimentari e vini (sempre davanti a Verona) seconda dietro Bolzano tra le colture permanenti.

Gli italiani spendono 150 miliardi l'anno per acquistare prodotti agroalimentari: il 35 per cento della spesa totale

I tanti tesori della capitale Cuneo

Mauro Gola, presidente dell’Unione industriale e numero uno della Camera di commercio la spiega così: «Forse negli anni ’60 siamo stati bravi a diversificare
mentre quasi tutti puntavano sull’automotive. E poi credo siamo stati abili a identificare un territorio con un prodotto. Penso al vino. Le Langhe hanno costruito la loro fortuna attorno ai vigneti. Ma c’è più: siamo stati capaci di costruire tutta una filiera attorno al prodotto simbolo. Così sono nate aziende del packaging o nella produzione di macchine per imbottigliare solo per fare due esempi legati al vino. In altre zone abbiamo puntato su altri prodotti: per esempio abbiamo creato il distretto leader nella produzione di panettoni tra Balocco, Maina e Albertengo. E poi aziende specializzate nella lavorazione delle carni e del latte, due eccellenze della nostra terra. Noi come istituzioni oltre a valorizzare ancora quando di buono nasce nella Granda dobbiamo batterci per una maggior tutela. Difendere le nostre eccellenze dalle imitazioni e dalle truffe è diventata una priorità».