Le prossime settimane saranno particolarmente imbarazzanti per i giornalisti, soprattutto per quanti dovranno spiegare perché il futuro della loro previdenza è in pericolo. E quindi dovranno fare i conti con quel fastidioso principio di realtà che obbliga a basare le proprie scelte sulla sostanza delle cose e non su quella che vorremmo che fosse.

Riassumiamo rapidamente il problema. L’Inpgi (Istituto nazionale di previdenza dei giornalisti italiani) è una fondazione di diritto privato incaricata di pubbliche funzioni e quindi sottoposta a precise norme di sorveglianza. È stata sostanzialmente privatizzata nel 1994 e gestisce la previdenza di base degli iscritti all’Ordine dei giornalisti in sostituzione dell’Inps.

L’Inpgi nella sua gestione principale (Inpgi 1) funziona con il principio della ripartizione. I contributi degli iscritti, lavoratori dipendenti, sono utilizzati per pagare le pensioni in essere. L’Istituto gestisce anche l’Inpgi 2 a cui sono iscritti i giornalisti liberi professionisti e che è gestito con il criterio della capitalizzazione (i contributi di ogni giornalista vengono accumulati e sulla base di questi sono calcolate e versate le rendite).

 

La crisi (irreversibile) dell’editoria

Da dieci anni, come certificato dagli stessi bilanci, la gestione dell’Inpgi 1 è in crescente passivo. Le entrate non bastano più a pagare le pensioni.

I contributi sono in diminuzione a causa della crisi strutturale dell’editoria mentre i costi per le pensioni e gli ammortizzatori sociali sono in forte aumento. Il fatturato delle aziende editoriali si è dimezzato negli ultimi. Tra il 2012 e il 2019 si sono persi 2.509 posti di lavoro giornalistici, una flessione del 14% mentre nello stesso periodo il totale degli occupati in Italia cresceva del 3%. È così che la gestione principale dell’Inpgi ha perso in dieci anni quasi il 20% degli iscritti attivi, che oggi sono intorno ai 14.500. Le pensioni erogate, tra il 2011 e il 2020, sono passate da 7.303 a 9.643, e la spesa è aumentata da 392 milioni a 545 milioni.

Il bilancio consuntivo 2020 ha chiuso con un disavanzo di 242,2 milioni di euro. I rapporti di lavoro sono diminuiti di 855 unità dopo la perdita di 865 nel 2019 con il doppio effetto di far diminuire i contributi e far aumentare la spesa pensionistica.

Fino al 2009 l’Inpgi aveva invece accumulato attivi di bilancio che hanno permesso di costituire un patrimonio che ora viene progressivamente consumato per completare i fondi necessari per pagare le pensioni. Con l’attuale tendenza di entrare e uscite il patrimonio sarà esaurito tra meno di due anni.

Dieci anni di continui rinvii

Un primo imbarazzo ci sarà nel dover spiegare perché si sia fatto poco o nulla per affrontare realisticamente il problema nonostante da dieci anni i bilanci, così come le puntuali relazioni della Corte dei conti, abbiano dichiarato la gravità e l’irreversibilità della crisi. Negli ultimi anni sono state compiute dagli amministratori dell’Inpgi illusorie manovre finanziarie (come contributi di solidarietà e tagli alle prestazioni accessorie) con effetti del tutto marginali sui bilanci.  

Da almeno due anni lo squilibrio di bilancio avrebbe imposto la nomina di un commissario, ma il termine è stato più volte spostato in avanti con decreti del Governo, l’ultimo dei quali ha previsto un’ulteriore proroga al 31 dicembre 2021 e la nomina di una commissione (con rappresentanti dei ministeri dell’Economia e del Lavoro oltre che dell’Inpgi e dell’Inps) che dovrà delineare entro il 20 ottobre gli scenari possibili.

L’allargamento: molti punti critici

L’obiettivo (e la speranza) degli attuali amministratori è stata sempre e solo quella di allargare la platea degli iscritti. Si è così insistito per anni sull’ingresso obbligatorio nell’Inpgi dei cosiddetti “comunicatori”, cioè di tutti coloro che nelle aziende, così come nella pubblica amministrazione, si occupano direttamente o indirettamente di comunicazione.

Una proposta che aveva fin dall’inizio almeno sei punti deboli.

  1. Non esiste alcuna identità giuridica che definisca i comunicatori: non c’è un ordine, né un riconoscimento pubblico. Esistono solo associazioni private con adesioni del tutto volontarie e contratti di lavoro dove sono previsti inquadramenti che comprendono anche marketing e pubblicità. E nessun sa dire con precisione quanti sono (si va dai 5mila che sarebbe impiegati nella Pubblica amministrazione ai 350mila che compaiono in alcuni documenti sindacali).
  2. In ogni caso i comunicatori, chiunque essi siano, ora pagano i loro contributi pensionistici all’Inps e un loro esodo farebbe crescere il deficit dell’Istituto e quindi aumenterebbe il peso sulla spesa pubblica almeno nella stessa misura che sarebbe necessaria per pareggiare il bilancio dell’Inpgi.
  3. Le associazioni dei comunicatori (come Ferpi ed Assorel) hanno esplicitamente e più volte contestato l’ipotesi di adesione dei loro aderenti all’Inpgi promettendo ogni forma di opposizione e di ricorsi per quella che hanno chiamato un’ipotesi di “deportazione contributiva”.
  4. L’ingresso dei comunicatori farebbe immediatamente aumentare il debito pensionistico dell’Inpgi anche perché i loro contributi verrebbero dirottati immediatamente per pagare le pensioni attuali dei giornalisti;
  5. Le pensioni pagate dall’Inpgi verrebbero così finanziate, peraltro a breve termine, con i soldi degli altri rendendo necessari progressivi allargamenti sempre più complessi e difficili. Qualcosa che ricorda lo schema Ponzi, quello delle società finanziarie che pagano i rendimenti promessi con i soldi dei nuovi investitori: non è un’ipotesi elegante per un istituto che dovrebbe essere un esempio di correttezza contabile;
  6. Un eventuale obbligo di adesione ad una fondazione previdenziale di diritto privato violerebbe l’art.38 della Costituzione che garantisce il diritto alla previdenza di base.  A meno che l’allargamento non si associ ad una nuova ed esplicita garanzia pubblica sui conti di un Inpgi che dovrebbe ritornare alle modalità precedenti la privatizzazione.

Proprio per queste ragioni fin dalle prime riunioni della Commissione di studio l’ipotesi allargamento ai comunicatori non ha fatto molta strada.

Ma è stata subito presentata come alternativa quella dell’allargamento verso grafici e poligrafici. Un’ipotesi ancora più temeraria e complessa tenendo conto che entrambe queste categorie stanno affrontando un periodo di forti trasformazioni. Il contratto di lavoro dei grafici editoriali è stato firmato nei mesi scorsi dopo sei anni (sì, sei anni) di trattative. Come si può pensare o proporre di riaprirlo per modificarne le norme previdenziali? E infatti le segreterie sindacali hanno subito espresso la loro contrariata sorpresa.

La strada più trasparente: allargare l’Inps

Ma allora la strada più lineare e trasparente, sempre peraltro respinta dagli amministratori Inpgi, sarebbe a questo punto quella seguita dai dirigenti nel 2001: liquidare l’istituto, nel loro caso l’Inpdai, ed entrare nell’Inps con le stesse regole di tutti gli altri lavoratori dipendenti.

In pratica ampliare la platea dell’Inps ai giornalisti invece che sottrarre contribuenti allo stesso Inps per tamponare le falle dell’Inpgi. Una soluzione per la quale lo stesso presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, si è detto “disponibile” in un’audizione alla Commissione parlamentare di controllo sugli enti di previdenza.

Di fronte a questa ipotesi si sono levate, soprattutto da parte degli esponenti sindacali, accuse di voler attentare alla libertà di stampa e di soffocare l’autonomia del giornalismo.

Forse va ricordato che in tutti i paesi del mondo i giornalisti partecipano alla previdenza pubblica di base e questo non incide minimamente sulla libertà di stampa.

E peraltro in Italia esistono un sindacato e un Ordine dei giornalisti che hanno, quelli sì, il preciso compito di garantire indipendenza, competenze e professionalità. Quello della previdenza è un tema innanzitutto contabile. La deontologia, la correttezza e l’autorevolezza devono seguire altri percorsi ed ottenere altre garanzie.  

Il tramonto del “vecchio” giornalismo

Si tratta in fondo di fare i conti con la realtà. Quella dei conti, innanzitutto, ma anche quella delle parole. Quella della storia e quella, almeno per quanto prevedibile, del futuro. E allora si può facilmente sostenere che il vecchio modello delle aziende editoriali è arrivato al tramonto: basta guardare alle continue richieste di tagli di organico e ai prepensionamenti, così come alle edicole chiuse nelle nostre città. Basta viaggiare in treno o in aereo ed accorgersi che sono sempre di meno, talvolta quasi nessuno, i viaggiatori con un giornale aperto.

Ma il vecchio giornalismo non è morto e non morirà.

La pandemia sta dimostrando come ci sia un bisogno vitale di un’informazione di qualità, pluralista, capace di analisi e approfondimenti. Non possiamo affidare agli algoritmi o all’intelligenza artificiale le decisioni più importanti sulla nostra vita personale e sociale.

Anche per questo la previdenza deve garantire ai giornalisti, così come a tutti gli altri lavoratori, la serenità necessaria sul futuro, una serenità che solo il sistema pubblico di base può dare. Una serenità indispensabile per esprimere la loro professionalità e la loro competenza in un momento di grandi cambiamenti.

La riforma continua della previdenza

L’ampliamento della platea dell’Inps ai giornalisti potrebbe peraltro costituire un capitolo della sostanziale manutenzione di cui la previdenza pubblica ha bisogno. Ci sono scadenze a breve termine, come “quota 100” che si esaurirà a fine anno, così come esigenze di medio periodo, legate soprattutto alla risposta da dare alle conseguenze di un calo demografico che in Italia è ancora più marcato che negli altri paesi europei e che la pandemia ha reso ancora più grave.

Non c’è solo la bassa fecondità, ma anche l’ingresso ritardato dei giovani nel mondo del lavoro e la crescita della componente anziana della società.

Una crescita che ha avuto una battura d’arresto, che tutti si augurano sia stata un’eccezione, nel 2020 con un aumento vicino al 10% del numero dei decessi a causa del Covid 19. E così la speranza di vita è diminuita per la prima vota dopo gli anni della guerra. Nel 2018 erano stati superati gli 83 anni, ai livelli più alti d’Europa vicini a quelli della Svizzera e della Spagna. Lo scorso anno la speranza di vita alla nascita è stata poco meno di 82 anni, vicina a quella del 2011.

Anche per questo è stata congelata fino al 2026 l’attuazione dei graduali aumenti dell’età pensionabile, aumenti che avrebbero potuto scattare nel 2023. Ma si può ricordare che paradossalmente l’Italia ha l’età legale di pensionamento (67 anni) tra le più alte dei paesi industrializzati, ma nello stesso tempo grazie a deroghe, eccezioni e misure transitorie che divengono definitive ha tra le più basse età di pensionamento effettivo (attorno ai 62 anni).

Più lavoratori per creare lavoro

A proposito di quota 100 si è rivelata irrealistica l’ipotesi che agevolando l’uscita dal lavoro si può favorire l’ingresso dei giovani. L’esperienza dei paesi più sviluppati dimostra infatti che più è elevato il tasso di occupazione degli over 55 più basso è l’indice della disoccupazione giovanile. Ebbene l’Italia ha il tasso di occupazione degli over 55 al 44% contro il 60% della media europea e il 70% della Germania. E a livello di disoccupazione giovanile l’Italia è a quota 30%, il doppio della media dei paesi Ocse. È illusorio pensare che le imprese sostituiscano persone di lunga esperienza con giovani apprendisti. I lavoratori non sono numeri e i posti di lavoro non si possono creare per legge.

Non bisogna dimenticare ulteriori paradossi

Le riforme pensionistiche si sono succedute a un ritmo quasi frenetico negli ultimi decenni perché ogni governo, e ne abbiamo avuti più di uno all’anno, si è sentito in dovere di mettere la propria bandierina su di un sistema importante non solo perché costituisce una forte componente della spesa pubblica, ma anche perché può essere un significativo generatore di consensi elettorali. Con in più il fatto che nei sindacati, in particolare nella Cgil, la componente dei pensionati sfiora la maggioranza degli aderenti.

I veri interessi della categoria

In questo scenario, tornando all’Inpgi, si può capire come sia imbarazzante per i giornalisti difendere un proprio istituto di previdenza che non ha (e da anni) i requisiti di sostenibilità. Un istituto che peraltro ha progressivamente dovuto rinunciare alle condizioni di maggior favore e ora ha sostanzialmente allineato contributi e prestazioni a quelle dell’Inps.

La forte crescita dei sistemi editoriali fino al 2008 aveva permesso pensioni più alte per i giornalisti e contributi più bassi per gli editori. Ora non può essere più così. E il principio di realtà chiede di chiudere con il passato e affrontare il futuro senza anacronistici privilegi. E senza imbastire inutili processi, ma guardando soprattutto avanti, al di là e al di sopra degli interessi particolari. E rispondendo con i fatti alle critiche verso gli attuali dirigenti di voler difendere più i propri incarichi che le esigenze complessive della categoria.

La politica dovrebbe convincersi che la grande maggioranza dei giornalisti non chiede di salvare formalmente l’Inpgi, ma di salvaguardare sostanzialmente le pensioni presenti e future.

E infatti in tal senso si era espressa nei mesi scorsi una petizione rivolta al presidente della Repubblica e firmata da più di tremila giornalisti, in cui si chiedeva «un intervento presso tutte le istituzioni interessate affinché sia confermata la garanzia pubblica dello Stato sul sistema pensionistico, come già avvenuto in passato per altri enti previdenziali». Il riferimento esplicito è alla già citata vicenda dei dirigenti che confluiti nell’Inps nel 2002 hanno comunque mantenuto intatti diritti e prestazioni.