Negli ultimi dieci anni si è ridotto il peso delle entrate fiscali (-2,5%, ma praticamente non se ne è accorto nessuno) a solo vantaggio di imprese e capitale. Al contrario, gli introiti da imposte sui redditi di individui e famiglie sono saliti dell’1,2%. Numeri che si affiancano alla percezione (e alla realtà) di un sistema normativo che strangola sì le imprese ma che, parimenti, e forse più tartassa le famiglie. Ma di fatto, il sistema fiscale italiano – senza considerare le imposte locali e il prelievo previdenziale che comunque sono costi rilevanti per le imprese - è «fortemente sbilanciato» su individui e famiglie, mentre nei confronti delle imprese è «il terzo paese per imposizione fiscale più bassa dopo Lettonia ed Estonia». Ma se mettiamo insieme la pressione fiscale con quella contributiva troviamo l’Italia saldamente in testa in Europa con il prelievo che falcidia il 64,8% degli utili.

 

Il peso del fisco su imprese e famiglie

Il dato della ripartizione del peso fiscale su famiglie e imprese, tuttavia, non è di parte in quanto proviene nella relazione di Gian Paolo Oneto, che guida la Direzione centrale Istat per gli studi e la valorizzazione tematica nell’area delle statistiche economiche, presentata in commissione Finanze alla Camera nel quadro dell’indagine conoscitiva sulla riforma dell’Irpef. Le imposte sui redditi di famiglie e individui costituiscono una delle due voci prevalenti delle imposte dirette, essendo l’altra rappresentata dalle imposte sui redditi e sui profitti delle imprese. «Il sistema italiano è fortemente sbilanciato a favore delle imposte sui redditi di individui e famiglie che pesano per il 27,5% delle entrate totali, mentre quelle sui redditi delle imprese si fermano al 4,6%», ha spiegato Oneto, aggiungendo che «questo sbilanciamento è condiviso con la totalità dei paesi europei (fa eccezione solo Cipro), ma la differenza di peso delle due componenti assume intensità variabili: una differenza superiore a 20 punti percentuali si registra, oltre che in Italia, solo in Danimarca, Finlandia, Svezia e Lettonia».

Il peso delle imposte sui redditi e i profitti di impresa in Italia è il terzo più basso d’Europa, superiore solo a quello che si osserva in Lettonia ed Estonia.

Tra 2010 e 2019 «la riduzione del peso delle entrate fiscali in Italia – sono ancora parole di Oneto – è dovuta principalmente alle imposte indirette Iva in primis (-1,9%). La variazione limitata dell’incidenza delle imposte dirette (-0,6%) è la risultante di una dinamica caratterizzata da una riduzione del peso delle imposte sui redditi e profitti di impresa (-1%) e di quelle sui guadagni di capitali (-2%) e, all’opposto, da un aumento delle imposte sui redditi di individui e famiglie (+2,1%)». Dinamiche simili si sono osservate in Grecia, Portogallo, Lussemburgo e Lettonia, anche se l’Italia si caratterizza per la maggior riduzione del peso delle imposte sui guadagni di capitali.

Serve più attenzione alle famiglie

Numeri che consentono anche una riflessione di strategia di politica fiscale. Il direttore Istat ha, infatti, sottolineato che nella futura riforma dell’Irpef bisogna «porre maggiore attenzione alle condizioni delle famiglie monoreddito, ma anche a quelle con figli adulti e, più generalmente, alle famiglie gravate da carichi familiari, il cui beneficio fiscale si perde progressivamente al crescere del reddito familiare». Inoltre andrebbe riequilibrato lo svantaggio relativo in termini di tassazione delle famiglie con un unico percettore di reddito da lavoro dipendente o pensionistico: «Le famiglie che dispongono delle sole entrate da lavoro autonomo presentano livelli di tassazione più favorevoli sia nella parte inferiore, sia in quella superiore della distribuzione del reddito, con un vantaggio più marcato quando vi sono due o più percettori di redditi autonomi».

La distribuzione dei redditi tra autonomi e dipendenti

Per quel che riguarda la distribuzione dei redditi, il 3% di contribuenti che dichiarano oltre 75mila euro di redditi per la maggior parte sono autonomi. Al netto delle mancate dichiarazioni, il 72% dei redditi sui quali grava l’Irpef è al di sotto dei 28.000 euro, il 22,3% si colloca tra 28.001 e 55.000 euro, solo il 2,7% è tra 55.001 e 75.000 euro e il 3% al di sopra. Oltre la metà (51,8%) dei redditi lordi da lavoro autonomo e il 45,7% di quelli da pensione si concentra nella fascia di reddito più bassa (fino a 15.000 euro annui). I redditi da lavoro dipendente risultano, invece, collocati prevalentemente nelle classi centrali: il 39,7% nel secondo scaglione (tra 15.001 e 28.000 euro) e il 21,6% nel terzo scaglione (28.001-55.000 euro).

Donne ancora penalizzate

Ancora molto forte il gender gap: il 44,5% delle donne con reddito da lavoro dipendente e il 59% delle donne con lavoro autonomo hanno redditi che non superano i 15.000 euro, rispetto al 27,6% dei dipendenti uomini e al 47,7% dei percettori maschi autonomi. Non solo. Dal punto di vista della distribuzione dei redditi per età emerge che tra i percettori di reddito da lavoro dipendente si colloca nello scaglione più basso poco più del 50% di chi ha meno di 35 anni di età e di anziani (65 anni e oltre). Anche il titolo di studio, ovviamente, discrimina fortemente la distribuzione dei redditi. In particolare, conferma ancora l’Istat, “guadagnano redditi non superiori ai 15.000 euro annui la grande maggioranza dei lavoratori con un titolo inferiore alla licenza media: quasi il 60% all’interno del lavoro dipendente e quasi il 70% di quello autonomo.

Il fisco tartassa i profitti d’impresa

Al di là della contesa su quali categorie pesi di più il fisco, resta il dato che finisce in tasse il 59% dei profitti delle imprese. È quanto risulta dal rapporto “Paying Taxes 2020” realizzato da Banca Mondiale e PwC (Price Waterhouse Cooper), in cui emerge che le imprese italiane continuano a pagano tasse e contributi molto più che nel resto d’Europa e restano penalizzate rispetto a tanta parte della concorrenza globale. Il carico fiscale e contributivo sulle imprese italiane è aumentato nel 2018 al 59,1% dal 53,1% della precedente classifica a fronte di una media globale 2018 pari al 40,5% ed europea del 38,9%. Per l’Italia si tratta di un dato essenzialmente riconducibile al venir meno degli sgravi contributivi introdotti quale misura temporanea non successivamente stabilizzata, “in conseguenza del mutamento della politica economica del paese”, spiega il rapporto. La sensibile riduzione dell’aliquota Ires intervenuta nel 2017 e la previsione del “super ammortamento” per l’acquisizione di nuovi beni strumentali non hanno consentito di assorbire l’impatto negativo del venir meno della decontribuzione. Peraltro, la ricerca evidenzia come in Italia servano 238 ore per gli adempimenti fiscali (invariate rispetto al 2017) che si confrontano con una media europea di 161 ore.

Le complessità italiane

Il rapporto studia la facilità nel pagare le imposte in 190 economie e fotografa l’incidenza della tassazione dell’attività produttiva nei singoli paesi, attraverso un caso di studio che ha ad oggetto un’impresa domestica di medie dimensioni nel secondo anno di operatività. Vengono considerati tre parametri: il Total Tax and Contribution Rate, che misura il carico fiscale e contributivo per le imprese (non la sola pressione fiscale); il tempo necessario per i diversi adempimenti relativi alle principali tipologie di imposte e contributi; il numero dei versamenti effettuati. L’Italia, tenendo conto dei tre indicatori, scende quindi al 128° posto nella classifica generale. Per quanto riguarda gli altri paesi, al primo posto c’è il Bahrein, seguito da Hong Kong e dal Qatar. Il Bahrein deve il primato all’effetto congiunto della grande facilità nel pagare le tasse e di un’incidenza del fisco pari solo al 13,8%. Secondo lo studio, bastano 22 ore e mezzo l’anno per mettersi in regola con il fisco del Bahrein. Quarta è l’Irlanda, davanti a Mauritius e al Kuwait. Singapore è settima, la Danimarca ottava, la Nuova Zelanda nona e la Finlandia decima. La Svizzera è al 20° posto, il Lussemburgo al 23°, gli Usa al 25° e il Regno Unito al  27°. San Marino è 47°, preceduta dalla Germania, mentre il Giappone è al 51° posto e la Francia al 61°.

La classifica sulla pressione fiscale complessiva (tassazione sui profitti delle imprese, tassazione sul lavoro e altre tasse) messa a punto dallo studio Ambrosetti mette in luce che l'Italia è la prima in classifica in Europa (64,8%), seguita da vicino dalla Francia (62,7%) e da più lontano dalla Germania (48,8% e dalla Gran Bretagna (32%). Insomma, rispetto ai suoi primi concorrenti sui mercati parte qualche metro indietro.