Il fenomeno è tanto massiccio e rilevante quanto poco conosciuto. Anche perché, pur iniziato diversi secoli or sono, soltanto da alcuni decenni ha assunto un grande rilievo economico e geo-politico. Si tratta della diaspora cinese verso il resto del mondo, in particolare nel Sud-Est asiatico: essa, come tutto ciò che riguarda il “Regno di mezzo”, ha assunto dimensioni davvero cospicue.
Soprattutto, muove interessi giganteschi e, in alcuni paesi limitrofi alla Cina, ha una sorprendente importanza, tanto da generare quote molto rilevanti del loro Pil e da esprimere i vertici delle classi politiche locali.
Intanto, occorre chiarire subito la natura del fenomeno: si tratta di una vera e propria diaspora o di un’emigrazione?
Se si fa risalire il termine diaspora alla dispersione forzata nel mondo del popolo ebraico dopo la conquista romana della Palestina, per il caso cinese, soprattutto agli inizi, bisognerebbe parlare di emigrazione, essendo avvenuta più per scelta (le opportunità di arricchimento offerte dal commercio tra il paese d’origine e quello di nuovo insediamento) che per necessità o imposizione altrui. Ma se invece s’introduce il concetto del mantenimento di una memoria e di una “nostalgia” comune delle proprie origini e di rapporti più o meno intensi con la terra di provenienza, nonché le frequenti difficoltà a essere accettati nel paese ospitante, allora quella cinese è davvero una diaspora.
Eventi colossali
Certo, trattandosi di uno spostamento collettivo relativamente recente, le cifre cinesi non raggiungono gli enormi livelli di quello inglese (circa 200 milioni di espatriati), tedesco (più di 120 milioni, il 40% dei quali diretto nei soli Stati Uniti, dove costituisce il nucleo etnico più consistente), italiano (circa 75 milioni, due terzi dei quali insediati in Sudamerica) o irlandese (ben 31 milioni di statunitensi hanno questa origine, quasi 5 volte gli attuali residenti dell’intera “isola verde”).
Tuttavia, poiché il fenomeno migratorio è divenuto imponente soltanto nell’ultimo secolo e mezzo, i 50 e più milioni di cinesi d’oltremare costituiscono un gruppo di grande rilievo. Inoltre, il loro numero quasi certamente è stimato per difetto perché molti di essi tendono tuttora a negare ufficialmente o celare le loro origini, in quanto spesso osteggiati per la posizione economica dominante assunta nei paesi di nuovo stanziamento, cosa che ne ha fatto dei frequenti capri espiatori delle crisi politico-economiche attraversate, in particolare nel Sud-Est asiatico.
Prolificità senza vincoli
Ad aumentare la consistenza delle comunità cinesi ha inoltre concorso il fatto che all’estero la loro prolificità non è limitata da rigide norme demografiche come accade nella patria d’origine, dove la politica del “figlio unico”, imposta nel 1979 da Deng Xiaoping, ha causato una drastica limitazione delle nascite.
La costante accumulazione di denaro delle minoranze cinesi, com’è intuibile, ha suscitato forti avversioni sociali nei paesi d’insediamento. I mezzi adottati per contrastarne l’ascesa sono stati i più vari. Si è andati dall’assimilazione forzata, come quella adottata in Thailandia all’inizio del ‘900, alla vera e propria “caccia all’uomo” che in Vietnam, alla caduta del regime filo-americano di Saigon nel 1975, provocò la fuga in massa di circa 650mila “boat people”, in gran parte di origine cinese, che controllavano l’80% dell’economia sud-vietnamita, fino ai veri e propri massacri sistematici attuati ripetutamente in Indonesia.
Quello del 1966, che presentò alcuni aspetti del genocidio, causò in poche settimane oltre 700mila vittime, per la maggior parte di etnia cinese, eliminate col pretesto di stroncare alle radici un colpo di stato fomentato dal potente Partito comunista locale, allora strettamente controllato da Pechino. Gli “incidenti” della primavera 1998, invece, provocarono “soltanto” un migliaio circa di vittime, ma l’espatrio di alcune decine di migliaia di ricchi cinesi a Hong Kong e negli Stati Uniti provocò una fuga di capitali dalle banche indonesiane stimata in 20 miliardi di dollari, un’enormità per l’epoca.
Sud- Est asiatico, soprattutto ma non solo
Come abbiamo accennato, tre quarti dei cinesi d’oltremare sono insediati in Asia, specie nel Sud-Est asiatico, dove le loro radici sono più antiche. Tali comunità, giunte in quelle terre in veste di mercanti, inizialmente non furono molto consistenti sul piano numerico, pur acquisendo rapidamente un ruolo economico sempre più rilevante, tanto da formare nuclei di potere di grande rilievo, rendendosi nel contempo indispensabili di fatto per i regni locali (Borneo, Filippine, varie isole dell’attuale Indonesia e l’intera Indocina), poiché per loro tramite le merci locali e quelle importate dalla Cina potevano fluire regolarmente verso i mercati europei e mediorientali di destinazione. Un’intermediazione che arricchiva tutti, tanto che l’arrivo nel XVI secolo dei primi colonizzatori spagnoli e portoghesi non modificò questi equilibri commerciali consolidati e il ruolo svolto dai mercanti cinesi fino alla seconda metà del ‘700, quando le compagnie commerciali coloniali di Olanda e Gran Bretagna soppiantarono in parte la loro funzione, senza tuttavia estrometterli del tutto.
I “coolies”
Diverso il caso dell’emigrazione che nell’800 fuggì dal “secolo nero” della Cina, afflitta da ricorrenti inondazioni (l’esondazione del Fiume Giallo, nel 1887, causò da uno a due milioni di vittime) e da carestie bibliche, unite all’eccessiva pressione demografica in varie province, ma soprattutto vittima del rapace colonialismo occidentale, che provocò la crisi terminale della declinante dinastia Qing. Queste ripetute catastrofi ridussero masse crescenti della popolazione letteralmente alla fame, contribuendo a spingere i cosiddetti “coolies” (termine dispregiativo con cui in Occidente si indicavano i contadini indiani e cinesi costretti al lavoro coatto da condizioni d’indigenza totale) a trasferirsi in Australia, Canada, ma soprattutto negli Stati Uniti, come manodopera in stato di semi-schiavitù che concorse in modo decisivo, specie dopo la guerra civile americana, al boom minerario e allo sviluppo del sistema ferroviario del paese.
Pur soffrendo frequenti massacri a sfondo razziale e malgrado i ripetuti tentativi di rimandare in patria i “coolies” non più necessari, ancor oggi vivono in America circa 3,8 milioni di cinesi, soprattutto lungo la costa occidentale, che discendono in parte da costoro in parte da immigrazioni successive.
Un ultimo apporto consistente a questa diaspora è giunto, infatti, dalla fuga dalla Cina di alcuni milioni di abitanti, non disposti ad accettare il cambio di regime avvenuto nel 1949 con la vittoria nella guerra civile dei comunisti di Mao Zedong. Si trattava di appartenenti a ceti sociali medio-alti e agiati, coscienti di aver tutto da perdere dall’avvento del nuovo regime, ma anche restii nel seguire lo sconfitto regime di Chiang Kai-shek nella sua fuga a Formosa, nel timore che Mao, prima o poi, riuscisse a conquistare anche l’isola nazionalista: il loro esodo, diretto soprattutto verso Thailandia, Vietnam del Sud e Indonesia, ma anche negli Usa, rafforzò ulteriormente la posizione di potere economico assunta dagli emigrati precedenti.
Un potere enorme
Da questo quadro, seppur sommario, è dunque facile intuire come la diaspora cinese, pur non vantando grandi numeri assoluti rispetto ai paesi d’insediamento, abbia raggiunto una posizione di grande forza economica. Ma la realtà è ancora superiore all’immaginazione: se mediamente i cinesi rappresentano appena il due o tre per cento della popolazione dei Paesi del Sud Est asiatico (con l’eccezione di Singapore, dove sono il 75% dei 6 milioni di abitanti, e della Malaysia, di cui costituiscono poco meno di un quarto dei 33 milioni di malesi), il loro apporto alla ricchezza creata raggiunge, secondo varie stime, tra il 70 e l’80% del Prodotto interno lordo, con il completo controllo dei settori commerciali e del terziario e un largo predominio in campo bancario e imprenditoriale. Una rete di potere economico dominante che è stata anche definita “Bamboo network” o “Chinese Commonwealth”.
Per offrire un ordine di grandezza indicativo del fenomeno, il Pil dell’Asean (l’Associazione delle 10 nazioni del Sud Est asiatico) ammontava lo scorso anno a 3.173 miliardi di dollari. Ciò significa che, di questa somma, tra 2.220 e 2.540 miliardi di dollari sono stati generati da cittadini di origine cinese. Un valore ancor più rilevante se si tiene conto che il Pil italiano, nello stesso anno, è ammontato a 1.848 miliardi di dollari. Alcune stime indicano inoltre una disponibilità cinese di capitali liquidi pari a 2.000 miliardi di dollari.
Solo il Vietnam, dopo la fuga di una parte cospicua dell’etnia Hoa (i cinesi parzialmente assimilati) che dominava l’economia del sud del paese - 250mila tornati in Cina tra il 1975 e i primi anni ’80 e 400mila dispersi nel resto del mondo - costituisce una parziale eccezione al predominio economico assoluto stabilito dagli emigrati cinesi. I restanti 750mila Hoa (lo 0,8% della popolazione totale e il 3% di quella del sud), dopo un’iniziale persecuzione con l’accusa di essere borghesi che “appoggiavano il capitalismo mondiale”, sono tornati fin dagli anni 90 a prosperare, dopo le riforme liberaleggianti introdotte dal governo comunista di Hanoi, fornendo il 20% del Pil del paese e oggi la quota loro attribuibile si può stimare in un terzo del totale.
Pechino riscopre i suoi figli lontani
Delineata a grandi linee l’importanza dell’emigrazione cinese all’estero, occorre anche accennare a come essa è percepita dal paese-madre. La linea discriminante è costituita dalla nascita della Repubblica popolare e dalle sue oscillazioni a sfondo ideologico nella valutazione del fenomeno: Mao, in una prima fase, giudicò con favore il ruolo dei cinesi d’oltremare e, pur vietando severamente ogni ulteriore espatrio, istituì una “Commissione per gli affari cinesi all’estero” con il chiaro intento di farne dei sostenitori del suo regime. L’intuibile insuccesso dell’operazione portò negli anni ’60 i dirigenti cinesi, durante la “Rivoluzione culturale”, a giudicare la diaspora formata da “capitalisti” irrecuperabili e a proibire ogni contatto tra essa e i cittadini cinesi. Fu Deng Xiaoping, grazie alla sua politica di grande apertura al riformismo economico, a favorire negli anni ’80 la ripresa dei rapporti con il mondo degli emigrati e a promuovere la creazione capillare in Cina di uffici per ristabilire con essi relazioni stabili.
L’obiettivo iniziale di favorire le rimesse degli emigrati e i loro investimenti nel paese si è presto trasformato nella percezione dell’eccezionale importanza della diaspora quale tramite per la penetrazione politico-economica di Pechino dei paesi di residenza. Xi Jinping ha varato una serie di agevolazioni che comprendono visti quinquennali e benefici per gli imprenditori che investiranno in Cina, con l’obiettivo ultimo di favorirne il più possibile il ritorno in patria.
La via della seta e il Sud-Est asiatico
L’avvio della “Belt and Road Initiative” (più nota da noi come “via della seta”), che ha nel Sud-Est asiatico il suo pilastro fondamentale, è la logica conseguenza della valorizzazione dei cinesi d’oltremare, che di quei Paesi - come abbiamo accennato - sono i reali gestori di fatto, sotto il profilo economico e (più spesso di quanto sembri) anche politico. Per quantificare il primo aspetto, ricorriamo nuovamente a un dato-simbolo: dei 18.690,7 miliardi di dollari stanziati da Pechino nel 2019 per la “Belt and Road Initiative”, oltre il 70% è stato destinato a Paesi dell’Asean.
A esemplificare l’importanza dell’aspetto politico, invece, sta il fatto che i vertici governativi della regione da oltre un secolo e mezzo sono largamente espressi da personalità di origine cinese: da molti dei presidenti filippini del dopoguerra (Manuel Quezon, Ferdinando Marcos, Corazon Aquino e Rodrigo Duterte) al “padre della patria” di Singapore, Lee Kuan Yew, dal sanguinario dittatore cambogiano Pol Pot al suo “braccio destro” Khieu Samphan e “sinistro” Ieng Sary, fino all’attuale “padrone” del paese, Hun Sen. Senza contare una lunga serie di primi ministri thailandesi, birmani, malaysiani, cambogiani e di Singapore.
L’impronta cinese sul Sud Est asiatico è dunque più profonda che mai e Pechino è pronta a ricorrere a questa “quinta colonna” per cementare rapporti ormai inscindibili.
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