L’invasione russa dell’Ucraina del 24 febbraio scorso ha alterato gli equilibri mondiali post guerra fredda, inaugurando una nuova era i cui contorni si vanno via via definendo. Ma guardando indietro nel tempo, anziché avanti, questo conflitto ci dà l’opportunità di rivalutare alcuni eventi storici chiave del Novecento.

Potremmo infatti postulare che il periodo 1989-91 è stato certo una rottura, meno netta di quanto ritenuto finora; e che invece il triennio 1979-81 meriterebbe maggiore attenzione per comprendere l’era in cui oggi viviamo.

Una ipotesi sfidante

La tesi, invero provocatoria, è stata recentemente proposta da Stephen Kotkin, storico e politologo americano di Princeton, tra i maggiori esperti di storia russa ed eurasiatica. Tra il 1989 e il 1991, argomenta, abbiamo assistito alla fine del comunismo e della guerra fredda, la riunificazione tedesca, il crollo dell’URSS. È certamente vero che, come si ritenne subito all’epoca e come si ritiene tutt’ora, siano stati eventi di enorme portata. Tuttavia, nel corso dei successivi tre decenni, non si sono rilevate rotture così radicali con determinate dinamiche e caratteristiche precedenti il 1989-91. Le quali, ora in modo carsico o sottotraccia, ora in modo più palese, sono rimaste. 

Consideriamo invece il periodo 1979-81. Si assistette alla rivoluzione islamica in Iran; all’inaugurazione della dottrina neoliberista in USA e Gran Bretagna; e alla trasformazione della Cina in una economia di mercato. A una più attenta analisi, sostiene Kotkin, questi avvenimenti hanno segnato davvero un cambiamento profondo, indicando dinamiche e processi nuovi.

L’ effetto Ucraina

Quali sono dunque le ragioni per cui il periodo 1989-91 si è rivelato meno rilevante di quanto normalmente si pensi? E come lo evidenzia l’attuale crisi in Ucraina? L’attacco di Mosca smentisce quello che si credeva essere il frutto principale stesso del pianeta post-guerra fredda: un mondo senza più guerre a livello di sistema capaci di ridefinire i rapporti di potenza globali. La Russia, avendo perso la guerra come Unione Sovietica, era destinata a essere inglobata nell’ordine economico mondiale, a diventare fors’anche un alleato del potere occidentale, e comunque a smettere l’habitus da grande potenza. 

La prima previsione si è attuata, almeno in parte. Ma l’integrazione della Russia nell’economia globale si è dimostrata ben poca cosa nell’orientarne le scelte in politica estera. Esse sono state improntate a una chiara politica revanscista, in aperto contrasto con alcune teorie liberali del rapporto tra interscambio economico e inclinazione al conflitto. Certo, la Russia non ha le capacità dell’URSS: è un attore ridimensionato in quanto a dimensioni economiche,   geografiche e quindi politiche. Ma ciò non l’ha resa un partner per i governi occidentali, né tanto meno per l’America, a livello politico, istituzionale, figuriamoci valoriale. 

Gli errori di valutazione sul Cremlino

Infine, l’ambizione russa e il potere geopolitico che la sostiene sono riemersi dopo un periodo di latenza o remissione. Una costante storica, a ben vedere: anche dopo la prima guerra mondiale si pensava (e fu infatti indicato nella redazione del trattato di Versailles, che ignorava la Russia bolscevica e la escludeva dalla comunità internazionale) che il potere russo fosse defunto. Lo si pensava pure durante l’era Yeltsin, all’indomani del 1991. Due volte, lo stesso errore di valutazione. 

La brutale aggressione dell’Ucraina ci ricorda che il potere russo sarà minore, sminuito, ma sicuramente presente e non ignorabile. E che esso si pone tutt’ora, in chiara continuità storica, in alterità profonda rispetto al mondo occidentale liberale.

In quegli stessi anni, il crollo del comunismo restituiva una Germania unificata. Le cancellerie di mezzo mondo erano comprensibilmente preoccupate – specie nei suoi rivali storici, come Francia e Regno Unito. Una Germania riunificata poteva (ri)tramutarsi in una forza politica, e non solo economica, capace di egemonizzare l’intero continente europeo.  

La postura geopolitica di Berlino

Ma ecco che alla Repubblica Federale di Germania, che a tutti gli effetti assorbe la DDR, non si sostituisce un soggetto diverso. Rimane una Germania dedita all’economia, politicamente introversa, in quanto dedita soprattutto ad integrare i lander orientali, poveri e sottosviluppati. Lo spostamento della capitale da Bonn a Berlino non ne altera insomma la postura geopolitica: durante come dopo la guerra fredda, la Germania di fatto non ha mai fatto vera politica estera, dove è rimasta un attore minore. Si è accontentata di divenire una delle economie più fiorenti del mondo, dedita all’export, beneficiaria della copertura politico-militare USA e della piattaforma economico-finanziaria dell’UE. Ed ecco che la guerra in Ucraina, per la prima volta dal 1945, obbliga la Germania a pensare a una politica di difesa, e quindi ad una politica estera tout-court. Gli impegni di Scholz su spesa militare e ruolo all’interno della NATO vanno in quella direzione. 

La rivoluzione islamica

Concentriamoci ora su quanto avvenne dieci anni prima del 1989-91. La rivoluzione islamica rappresentò il culmine del movimento islamista. Questo emerse sin dalla fine dell’Ottocento come risposta all’intrusione europea, specie ma non solo tramite il progetto coloniale. L’islamismo si è posto, nelle sue multiformi e varie incarnazioni, come risposta indigena e nativista a tale intrusione. Essa ha infatti investito il mondo musulmano in ambito politico, economico, sociale e anche intellettuale. 

L’islamismo ha offerto un ibrido tra modernità europea e principi islamici. Con la proliferazione di gruppi, associazioni e movimenti, è stato tra i principali protagonisti dal secondo dopoguerra in avanti nella vita sociale e politica di pressoché ogni paese a maggioranza musulmana. La rivoluzione in Iran segna un apogeo di tale movimento in quanto un moderno stato nazionale si dota di un apparato istituzionale in gran parte di derivazione religiosa. 

Se è vero che nessun altro paese arriverà a tanto (non si sono viste altre teocrazie islamiche), è altrettanto vero che l’esempio di Teheran mostra alla galassia islamista che l’islamismo è un progetto realizzabile, che può condurre al successo. Quanto segue, nei suoi aspetti più drammatici - la resistenza dei Mujaheddin contro i Sovietici in Afghanistan, la formazione di Al-Qaeda, l’11 Settembre, le guerre in Iraq e Afghanistan, la stagione del terrorismo islamista globale e la guerra al terrore – entra a far parte della nostra contemporaneità.

Stagflazione e Reaganomics

Allo stesso tempo, la fine degli anni 70 consegna alla teoria economica un nuovo termine: stagflazione. Non si riteneva possibile che un’economia potesse allo stesso tempo vedere i prezzi salire senza che essa crescesse a sua volta. Eppure, un rincaro delle materie prime, una stretta creditizia e una contestuale diminuzione della domanda aggregata portarono ad una situazione di stagnazione economica con contestuale inflazione. 

Fu allora che il neo eletto presidente americano Ronald Reagan fece propria una dottrina economica partorita negli ambienti dell’Università di Chicago, legata in particolare al nome di Milton Friedman e Friedrich Von Hayek. Tale dottrina, definita presto come “neoliberismo”, forniva raccomandazione per uscire dalla stagflazione: la riduzione dell’intervento statale nell’economia (con meno tasse e meno spesa), liberalizzazione e privatizzazione (riponendo grande fiducia nel libero mercato), e deregolamentazione.

Margaret Thatcher, neo-premier britannica alle prese con profondi conflitti sociali e debole crescita, seguì prontamente Reagan, dando così effettivamente inizio alla rivoluzione neoliberista. La rivoluzione comportò un periodo di enorme espansione economica, dei consumi, ma anche delle disuguaglianze all’interno delle società sviluppate. Essa venne subito estesa, tramite il cosiddetto “Washington Consensus”, ai paesi del sud del mondo. Consisteva in linee guida emanate da Banca Mondiale e Fondo Monetario, le quali indicavano (o imponevano) come ristrutturare in senso neoliberista le economie meno sviluppate in preda a debito e povertà. 

La Cina di Den Xiao Ping

È in questo clima che si compie l’ultimo dei grandi passaggi del 1979-80. Deng Xiao Ping prende in mano le redini della Cina comunista dopo la fine dell’era maoista. Abbandona prontamente il comunismo ideologico e totalizzante del Grande Timoniere. Lo fa anche in virtù dell’apertura politica ed economica con gli Americani che, iniziata nel 1972 con Nixon, trova pieno compimento con il riconoscimento ufficiale tra i due paesi nel 1979. 

La ricetta di Deng per lo sviluppo economico di un paese fino ad allora poverissimo è l’adozione di misure ispirate al neoliberismo. Rimosso in gran parte il controllo centralizzato dell’economia, e ammessa la proprietà privata dei mezzi di produzione, ecco che l’elaborazione di “socialismo di mercato” riesce a liberale le enormi potenzialità produttive del paese. La Cina si apre al mondo, e la sua economia si integra con mercati finanziari e filiere produttive a livello globale. Quella che ora è la seconda economia del mondo, con velleità da egemone, nasce allora.

Il check-point sulle tre svolte 

Dunque, rivoluzione islamica, neoliberismo, e ascesa cinese: il 1979-80 ci consegna tre svolte fondamentali. A questo punto, tuttavia, è legittimo chiedersi quale sia lo stato di salute di questi tre progetti ad un tempo politici, economici ed intellettuali. Ebbene, tutti si trovano a fronteggiare crisi profondissime, forse non risolvibili.

L’islamismo si è dimostrato incapace di produrre un modello politico veramente alternativo alle democrazie liberali. Già in un saggio del 1993 lo studioso francese Olivier Roy parlava di “fallimento dell’islam politico”. Non tanto per la proliferazione di movimenti dediti alla violenza o al terrorismo – comunque una minoranza all’interno del movimento islamista. Quanto piuttosto per la mancata conciliazione, a livello teorico e poi quindi istituzionale, di emancipazione individuale e sociale da un lato e precetti religiosi dall’altro. L’Iran degli ayatollah, in particolare, si è rivelato ancor più repressivo di quello dello Scià. Le vaste proteste popolari del 2009 (il cosiddetto ‘Movimento Verde’) hanno decretato che il regime può ancora reprimere il dissenso, ma non più generare consenso. 

Il neoliberismo ha generato un’incredibile crescita economica. Ma si è dovuto constatare che questo è avvenuto a scapito di due elementi. In primo luogo, aumentando la disuguaglianza a livello economico e la concentrazione della ricchezza. Se anche non fosse un problema a livello etico, lo è a livello di coesione sociale e politica. Ciò è apparso in tutta la sua gravità in concomitanza con il secondo elemento da tenere in considerazione: le cicliche crisi finanziarie in parte determinate dalla deregolamentazione neoliberista. 

Le crisi economiche dovute alla deregolamentazione 

La crisi asiatica del 1997, quella russa del 1998, quella argentina del 2001, fino poi alla crisi globale del 2008-2009: momenti in cui proteste e moti delle classi più svantaggiate hanno messo a dura prova la tenuta politica-istituzionale di molti paesi. Un collasso paragonabile alla crisi del 1929, che ha eroso il consenso al progetto neoliberista anche nel tempio della finanza mondiale, con l’emergere di Occupy a New York e poi nel resto degli USA. Si è dunque assistito a una progressiva discussione dei fondamenti del neoliberismo, in particolare si è posta maggiore attenzione alla regolamentazione dei mercati finanziari, considerato epicentro del problema.

Il dilemma di Pechino

Infine, in questo contesto, la Cina affronta un dilemma che nessun altro paese a guida comunista ha mai risolto. Se la Cina ha infatti adottato i fondamenti dell’economia capitalista e del mercato, questo non si è però accompagnato ad una liberalizzazione politica in senso liberale e democratico. Il partito comunista cinese sa che da un lato deve concedere spazio alla sfera privata della società civile per sostenere benessere e crescita economica. In fondo, il capitalismo (anche quello con caratteristiche cinesi) si basa su quello. 

Allo stesso tempo, ciò comporterebbe l’emersione di centri di potere rivali (come grandi gruppi industriali e finanziari indipendenti), e l’emancipazione della classe media, storicamente tra i principali attori nei processi di democratizzazione. Aprire ulteriormente al mercato e alle classi sociali che lo nutrono e che da esso traggono forza rischia perciò di sfidare il monopolio politico del partito. Un partito il quale, figlio della concezione marxista-leninista, non può concepire tale scenario. 

Pechino conosce la storia. Riformare il sistema in senso liberale anche politicamente non è possibile, altrimenti collassa. 

È la lezione dell’Europa dell’Est, e dell’URSS di Gorbačëv in particolare. Mantenerlo non garantisce crescita economica sufficiente. È la lezione di Corea del Nord e Cuba. 

La Cina post-maoista, l’islamismo e il neoliberismo si trovano ora ad affrontare sfide monumentali. Sono sfide nate, paradossalmente, dagli stessi successi maturati all’indomani del decisivo biennio 1979-80.