A lanciare l’allarme sul debito pubblico italiano -  che periodicamente si riaffaccia, va detto - è stato l’autorevole Financial Times. Il rischio, infatti, secondo il 90% degli economisti sondati dal quotidiano economico britannico, è una vendita incontrollata dei titoli di Stato italiani nei prossimi mesi. A trainarla potrebbero essere le conseguenze delle mosse della Banca centrale europea (Bce), che dopo i rialzi dei tassi per complessivi 250 punti base condotti nel 2022, continuerà con la “normalizzazione” della propria politica monetaria per frenare le fiammate dei prezzi. Secondo il sondaggio del quotidiano londinese, l’ammontare del debito pubblico italiano rischia di complicare la vita al governo Meloni.

A distanza di poco più di dieci anni dalla crisi del debito dell’area euro, l’Italia torna sotto strettissima osservazione. E l’ultima uscita del Financial Times rivela una doppia verità: da un lato il livello eccessivo del debito pubblico italiano, un problema oggettivo per l’Italia; dall’altro il fatto che finita la luna di miele Italia-Europa, grazie al governo Draghi, ora ricomincino i problemi, trainati da una presunta “distanza” tra Giorgia Meloni e la Commissione europea, alimentata più dai toni (inevitabilmente)  accesi della campagna elettorale che da decisioni politico-economiche vere e proprie.

Non a caso, dopo le prime indicazioni della nuova politica economica indicata dai leader del centro-destra, arriva una presa di posizione di Moody’s a sottolineare come il debito pubblico tanto alto rappresenti un rischio per le banche italiane.

La memoria corre al 2012, governo Berlusconi

E poi, dopo alcune considerazioni (non positive) del presidente del consiglio italiano, sull’operato della Bce in tema di aumento dei tassi d’interesse,  ecco che arriva l’articolo del Financial Times sulla sostenibilità a rischio del debito pubblico italiano. Richiami che ci riportano alla memoria quel che accadde una decina di anni fa, nel lontano 2012, quando il rialzo dello spread costrinse il Governo Berlusconi a dimettersi e in Germania il governo tedesco obbligò tutte le banche a vendere (di fatto a disfarsi) dei titoli di Stato italiani. La svendita di titoli italiani finì per creare ed alimentare ancora più speculazione nei confronti del nostro debito pubblico. Si trattò, come fu ben chiaro da subito, di una  forte operazione politica contro il governo Berlusconi che ebbe l’effetto di portare a Palazzo Chigi Mario Monti con l’introduzione dell’Imu, la riforma Fornero delle pensioni e così via. È presto per dire che la stessa cosa sta ora accadendo con il governo guidato da Giorgia Meloni (il problema oggi infatti è rappresentato più dal rialzo dei tassi da inflazione che dalla politica nazionale) ma di certo non manca chi, Germania in primis,  ha interesse a mettere a rischio il debito pubblico italiano, quindi le banche che lo detengono, e a cascata un’economia reale che, pur tra mille difficoltà, sta andando meglio di quanto accada ai competitor francesi e tedeschi.

Una zavorra da 45 mila euro a testa

Ma tornando ai dati reali, il debito pubblico – 2.751 miliardi di euro il dato al 10 gennaio 2023 calcolato dall’Istituto Bruno Leoni, pari a  45mila euro per ogni italiano (valore riferito a fine 2021) , inclusi neonati e ultracentenari con una crescita di 3.300 euro ogni secondo - è realmente un problema per l’Italia. Infatti, come si legge nelle Linee guida sulla gestione del debito pubblico 2023 preparate dal Tesoro, il nostro Paese dovrà emettere nei prossimi 12 mesi titoli a medio-lungo termine fra i 310 e i 320 miliardi. Livello di emissioni che considera l’erogazione puntuale delle rate attese per il Recovery senza le quali l’ammontare dei Btp di quest’anno salirebbe verso quota 350 miliardi, decisamente più dei 278 miliardi collocati nel 2022; considerando anche Bot e altri titoli a breve, il livello massimo delle emissioni definito dalla legge di bilancio arriva a 510 miliardi che significa 86 in più dei 424 miliardi emessi nel complesso nel 2022. E a cambiare non sono le quantità ma anche, e soprattutto, i costi. Infatti,  i Btp emessi nel 2022 hanno registrato un costo medio all’emissione dell’1,71% (nel 2021 era allo 0,59%)  e per trovare un livello più alto bisogna risalire al 2,08% del 2013, in un’Italia appena uscita dalla crisi del debito sovrano che a fine 2011 portò alla crisi del governo Berlusconi e ai provvedimenti d’urgenza avviati dall’esecutivo Monti.

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Una dinamica, quella dei tassi di interesse,  che ha imposto continui aggiornamenti al rialzo nei calcoli sul peso degli interessi sul nostro bilancio pubblico. Nel 2023-2025, secondo il Def approvato ad aprile 2022  dal governo Draghi, l’Italia avrebbe dovuto pagare per interessi circa 186 miliardi che salgono, secondo le tabelle allegate alla legge di bilancio 2023, a oltre 270 miliardi; con un aumento del 45,2% che vale 19,4 miliardi per il 2023, 30 per il 2024 e 34,7 se si guarda al 2025. La dimensione reale del problema emerge bene se si considera che questo costo aggiuntivo vale, solo nel 2023, il quadruplo dei fondi stanziati dalla manovra per il taglio al cuneo fiscale.

Se ancora si guarda al 2011 la differenza è sostanziale in quanto a spingere sul costo del debito non è tanto la percezione di un rischio politico italiano - come evidenzia il fatto che il programma di finanza pubblica del governo Meloni, in continuità con le politiche di Draghi,  sia stato accolto due mesi fa con discesa di spread e rendimenti – quanto il cambio di politica economica generato dall’inflazione;  e al dato del rialzo dei tassi si accompagna la riduzione del portafoglio da parte della Bce. E se è vero che il nuovo scenario aumenta tutti gli interessi sul debito, è altrettanto vero che ha un effetto più pesante sui Paesi più indebitati. Tanto che il rendimento del Btp decennale a inizio gennaio era 3,75 volte più in alto rispetto a 12 mesi fa.

La storia del nostro debito pubblico

L’attuale debito pubblico italiano si formò, nella sostanza, tra gli anni ’80 e ’90, passando dal 57,7% sul Pil nel 1980 al 124,3% nel 1994 e da allora la spesa per interessi crebbe in Italia dall’8% del Pil nel 1984 all’11,4% del ‘94, livello di gran lunga maggiore del resto d’Europa. Nel 1993 il divario tra i tassi d’interesse fu addirittura triplo, il 13% in Italia contro il 4,4% della zona euro e il 4,3% della Ue. Pertanto l’attuale debito pubblico è dovuto più che dalla spesa eccessiva dall’enorme massa di interessi passivi pagati alle banche e agli investitori privati.

Storicamente, il primo boom del debito italiano si verifica nel 1897, con la crisi economica di fine Ottocento, quando raggiunge il 117% del Pil nonostante un saldo primario positivo. Solo con la tumultuosa crescita economica del periodo giolittiano torna a scendere a quota 70% (nonostante le spese legate alla guerra di Libia). Le altre due impennate del debito si verificano durante i conflitti mondiali. Nel primo dopoguerra, in particolare, l'enorme debito contratto per lo sforzo bellico tocca il 160% del Pil nel 1920, a livelli non lontani da quelli attuali della Grecia. Solo con la cancellazione dei debiti di guerra e con una rilevante caduta del debito interno, la seconda crisi di finanza pubblica viene superata.

Gli effetti della crisi del 1929 e della Grande Depressione tornano a far gonfiare il debito portandolo all'88% del Pil nel 1934, con una spesa costante in termini nominali ma una rilevante diminuzione delle entrate. L’ingresso dell’Italia nella seconda guerra mondiale torna però ovviamente a gonfiare il debito, che raggiunge il 108% nel 1943. Negli ultimi due anni del conflitto e nell’immediato secondo dopoguerra un’inflazione spaventosa sbriciola il debito, riportando il rapporto con il Pil al 40% (nel 1946).  Ancora nel 1964, in pieno boom economico, quando l’economia italiana cresce in media del 5% annuo sostanzialmente senza inflazione, il rapporto debito-Pil si trova al 33%. Queste condizioni favorevoli continuano bene o male fino alla fine degli anni Sessanta anche se nel 1968 il rapporto debito-Pil è già al 41%.

Il carovita degli anni Settanta

Infatti, dal 1968 al 1983 la situazione delle nostre finanze pubbliche inizia a precipitare. La crescita resta buona, intorno al 3% medio annuo (anche se siamo lontani dalle performance del “miracolo economico”) ma con la crisi petrolifera del 1973 esplode un’inflazione galoppante (da noi ulteriormente acuita dalle svalutazioni della lira). In Italia il carovita vola dal 5,2% del 1972 al 19% del 1974, mantenendosi attorno al 15% fino alla fine del decennio, quando si impenna di nuovo fino a toccare uno spaventoso 21,7%. Il debito però non esplode, aumentando sì nei primi anni Settanta per via della recessione ma restando poi sostanzialmente stabile: nel 1981 si trova ancora al 60% del Pil per la ragione che dal 1975 la Banca d’Italia si impegna a garantire il successo delle aste dei titoli di Stato, stampando moneta per comprare le obbligazioni rimaste invendute. In questo modo il costo dell’aumento del debito sparisce dai conti pubblici ma si scarica sulla lira, che non a caso nella seconda metà degli anni Settanta si svaluta di un significativo 40% rispetto al dollaro.

Il "divorzio" tra governo e Bankitalia

Ma proprio nel 1981 esplode la bomba che condanna l’Italia a morire di debito, complice la cronica avversione dei Governi dell’epoca alla disciplina di bilancio. Succede, infatti, che la Federal Reserve americana dà vita a una forte stretta sui tassi, passati in sei mesi dal 9% a quasi il 19%. Tutte le altre banche centrali del pianeta sono costrette a inseguire la Fed, compresa Bankitalia. È in questo contesto che nel luglio 1981 il ministro del Tesoro Beniamino Andreatta e il Governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi avviano il “divorzio”: via Nazionale, come altre banche centrali, si libera dall’obbligo di acquistare i titoli di Stato invenduti, tornando a essere indipendente nelle sue scelte di politica monetaria. Il nostro Paese arriva al 1982 in condizioni “sudamericane”: l’inflazione viaggia intorno al 17% e i tassi d’interesse all’inizio dell’anno superano il 25%; lo spread tra i Btp decennali italiani e quelli della Repubblica federale tedesca tocca il record di 1175 punti base, vetta mai più raggiunta nemmeno durante Tangentopoli e la crisi della lira (769 punti base), o nella crisi del debito sovrano del 2011  (574 punti base).

 

I Governi italiani che si succedono negli anni Ottanta continuano a mantenere saldi primari negativi (si sfiora il 15%) ed è in questi anni che il debito decolla: nel 1980 era appena sotto il 60%, ma dieci anni dopo è già volato al 100% del Pil. Il grande problema - allora come ora -  restano gli alti  tassi di interesse reali che dobbiamo pagare sul debito con un’incidenza della spesa per interessi sul debito pubblico che nel 1994 raggiungerà il 12% del Pil e un debito pubblico che si spinge al 124% del Pil. Da allora è passato quasi un quarto di secolo, ma siamo sempre lì, anzi oltre, molto oltre visto che abbiano sfondato, complice il Covid, il muro del 150% del Pil; nel 2022 (secondo le ultime stime Ocse) il dato si è attestato al 146,5% del Pil e dovrebbe scendere al 144,4% nel 2023 e al 143,3% nel 2024.