Sono delle autentiche macchine del tempo: camere di due metri per tre dove si simula quel che accadrà tra 5-15-50 anni sulle piante della vite e del pioppo di fronte ad aumenti di temperatura e di concentrazione di anidride carbonica. Un viaggio nel futuro per capire le strategie più efficaci per combattere i parassiti al tempo dei cambiamenti climatici. E aiutare chi si occupa di ibridazioni a ricercare le varietà più resistenti di piante. Ma non solo.

Qui, nei laboratori di Agroinnova, a Grugliasco, periferia di Torino, questi effetti si studiano da tempo nei fitotroni allestiti dall’Università facendo del Centro un avamposto nell’innovazione in campo agro-ambientale. Confermato anche da risultati a livello internazionale. Per esempio, lo studio Scientific review of the impact of climate change on plant pest commissionato dalla FAO che, coordinato da Maria Lodovica Gullino, direttrice e anima del centro universitario torinese, ha coinvolto ricercatori di mezzo mondo ed è diventato uno dei testi chiave sulla salute delle piante per l’organizzazione dell’Onu.

Alla fine dell’estate più siccitosa di sempre da quando si raccolgono i dati meteorologici, può essere l’osservatorio giusto per capire che impatto tutto questo avrà sull’agricoltura, una produzione che vale il 2,2% del Pil italiano, pari quasi a 40 miliardi di euro (38,8 per la precisione). E che occupa oltre un milione di lavoratori (più di 400 mila come dipendenti): siamo il Paese con il maggior numero di addetti nell’Unione Europea (seguono Spagna e Francia). E che presto, se i tempi per il Pnrr saranno rispettati, potrà contare su un centro nazionale di ricerca con sede a Napoli e distaccamenti in diverse altre città (tra cui Torino), per accelerare il trasferimento delle soluzioni trovate dagli esperti agli agricoltori perché diventino subito operative in una sfida che non ammette più ritardi.

La carta nuove tecnologie

Gullino non vuole vestire panni catastrofisti: «Certo, da qualche anno facciamo sempre di più i conti con gli effetti del cambiamento climatico: dalle temperature sempre più elevate che rendono aride aree un tempo assai fertili a eventi climatici estremi, come l’alluvione nelle Marche o le bombe d’acqua che hanno colpito la Sicilia. Ma le nuove tecnologie possono darci una grossa mano a mitigare le conseguenze e soprattutto ad aiutare l’agricoltura a superare quelli che sono a tutti gli effetti degli stress biologici».

Uno dei primi obiettivi di chi lavora in laboratorio è creare colture nuove più resistenti di fronte sia ai parassiti sia alla siccità. «Il rischio fitosanitario è indubbiamente aumentato. Per l’effetto delle temperature elevate abbiamo parassiti che prolungano i loro cicli di vita aumentando così la pericolosità – aggiunge Gullino –. E che resistono ai trattamenti chimici e biologici. Così come certe malerbe che per effetto del riscaldamento globale si riproducono più rapidamente e sopravvivono ai fitofarmaci. Insomma crescono i problemi di salute per le piante e si complica la vita degli agricoltori».

Sul fronte della siccità occorre migliorare le tecniche d'irrigazione. Si spreca ancora troppa acqua, sottolineano gli esperti. Un salvagente può arrivare anche stavolta dalla tecnologia con l’impiego di sensori per distribuire l’acqua solo quando veramente necessaria. Non solo. Nei laboratori si lavora anche al miglioramento delle specie, puntando a nuove varietà che richiedano meno irrigazioni. «Ma non sarà una transizione a costo zero. Riorganizzare un sistema di coltivazione costa – spiega Gullino – per questo è necessario l’intervento della politica. Agli agricoltori serve assistenza tecnica ma anche sostegno economico per rivedere tecniche e coltivazioni. Però è ora di intervenire, non si può rimandare. D’altronde, già vent’anni fa nelle mie lezioni all’università spiegavo che sarebbero aumentati gli eventi estremi. Sembrava di parlare di una cosa lontana e invece è successo tutto nel giro di poco tempo».

Tesori del made in Italy a rischio

C’è chi lancia l’allarme: sotto l’effetto del climate change rischiano di sparire tesori del “made in Italy”. Parola di Coldiretti. Dall’Arrappata di San Chirico Raparo alla Slinzega, dai Testaroli alla Porcaloca ai fagioli borlotti del Cuneese, in tutto 5.450 specialità messe a rischio dalla siccità che quest’estate ha colpito come non mai le produzioni agroalimentari da nord a sud del Paese prosciugando un bacino strategico di ricchezza enogastronomica con un certo appeal anche tra i turisti. Specialità, queste censite da Coldiretti, ottenute secondo regole tradizionali protratte per almeno 25 anni.

Ne è uscita anche una classifica dei tesori del gusto a rischio che vede la Campania primeggiare con ben 580 specialità davanti a Toscana (464) e Lazio (456). Seguono l’Emilia-Romagna (398) e il Veneto (387), davanti al Piemonte (con 342 specialità) e la Liguria (300).

Cambierà dunque la mappa delle produzioni? «Di sicuro avremo colture che un tempo caratteristiche del Sud si svilupperanno anche al Nord. Già accade con l’ulivo per esempio. Così come in Sicilia sta prendendo piede una coltivazione tipica dei paesi tropicali come l’avocado. Non ci servono tanti gradi in più di quelli di oggi per trasformare il nostro clima in quello del Marocco e lì l’agricoltura non ha vita facile – continua la direttrice di Agroinnova –.  Ma tutto questo favorirà anche la valorizzazione di aree marginali come la mezza montagna. Potremo spostare – e in parte già accade, penso ai vigneti nell’Alta Langa – in quelle zone produzioni orticole e frutticole. È una forma di agricoltura che si può incentivare ma tenendo conto che all’inizio si dovrà fare i conti con una produttività più scarsa perché le piante si adattano ma a scapito di una minor resa».

I risicoltori a un bivio

Dunque, i salvagenti per l’agricoltura di domani non mancano, però intanto c’è chi come i coltivatori di riso – una vera eccellenza italiana considerato che il 50 per cento di prodotto venduto in Europa è prodotto nei nostri campi – si trovano di fronte a più di un interrogativo dopo un’estate contrassegnata da un calo della produzione (1,5 milioni di tonnellate la produzione nazionale) che spazia dal 7 al 15 per cento a seconda delle varietà, un’ulteriore riduzione della superficie coltivata (26mila ettari in meno nel triangolo d’oro compreso tra Vercelli, Novara e Pavia dove si destinano al riso 218 mila ettari) e soprattutto liti per l’acqua (poca) tra province che qualcuno ha subito ribattezzato una guerra tra poveri.