L'Italia, nel 2021, ha la presidenza del G20. Ma è presa da altri problemi, a cominciare dalla crisi di Governo in corso. Eppure, questo appuntamento è dirimente per le sfide liberali delle democrazie.
L’assunto per l’avvio del G20, nel 1999, fu che il mondo stesse convergendo verso un modello di ordine liberale. Poiché i Paesi aderenti avanzati ed emergenti commerciavano e interagivano fra loro, era diffuso il convincimento che essi sarebbero divenuti stakeholder responsabili di questo ordine condividendo le sfide e limitando le differenze geopolitiche. Il G20 raggiunse l’apice nel 2008 quando i capi di Stato si ritrovarono a Washington per affrontare la grave crisi che stava piegando i mercati finanziari e l’economia globali.
La crisi finanziaria del 2008
In risposta alla crisi finanziaria essi concordarono imponenti contributi finanziari per sostenere i Paesi in difficoltà nonché regole più stringenti per le istituzioni finanziarie, inclusi gli hedge fund. Si impegnarono a cooperare contro l’evasione fiscale a livello internazionale, a non elevare nuove barriere agli investimenti o agli scambi di merci e servizi sottolineando “l’importanza nevralgica di rigettare il protezionismo”. Le potenze emergenti esterne al G7 ebbero un ruolo cruciale. In particolare la Cina, mentre era in corso la sua campagna per ottenere lo status di economia di mercato al WTO, in occasione del summit di Pittsburgh nel 2009, assurse quale terzo più importante Paese nell’ambito del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale.
Tuttavia la crisi finanziaria aveva avuto effetti destabilizzanti sul global consensus e il presunto processo di convergenza si dissolse in aperta divergenza. Russia e Cina, competitor in ascesa, indicarono nell’ordine liberale una minaccia. In Occidente la globalizzazione aveva portato stagnazione e outsourcing. Gli americani, a cominciare dal presidente Obama, si chiedevano se gli Stati Uniti dovessero continuare a reggere da soli l’onere della leadership globale.
Il tasso di crescita fissato a Brisbane
Mentre l’economia statunitense riprendeva a crescere e quella cinese continuava la sua corsa, gli effetti della recessione avevano rallentato la ripresa innanzitutto in Europa con ripercussioni a livello mondiale. Nel 2014 i leader G-20, al summit di Brisbane in Australia, si trovarono d’accordo a fissare un tasso di crescita globale del 2,1 % entro il 2018, che avrebbe dovuto essere sostenuto dal varo di politiche per favorire progetti infrastrutturali, competizione, riduzione delle barriere agli scambi e agli investimenti esteri, creazione di lavoro per i giovani.
La globalizzazione si era inceppata. Nel 2016 il G20 si riunì a Hangzhou, in Cina, con l’obiettivo di rilanciarla sulla scia della Brexit, la candidatura alla Casa Bianca di Donald Trump, il sorgere della estrema destra in Europa e dell’anti-occidentalismo in Cina. I leader rinnovarono le dichiarazioni d’impegno per crescita economica e più apertura negli scambi e investimenti. Essi riconobbero che la crisi dei migranti e dei rifugiati abbisognava di sforzi globali e di assistenza umanitaria. Riaffermarono la volontà di combattere il terrorismo. Ma l’unica iniziativa sulla quale concordarono alcuni impegni concreti fu la ratifica dell’Accordo di Parigi sul clima.
Il mondo diviso lungo tre linee
Ormai gli analisti si chiedevano se il G20 fosse sopravvissuto al suo scopo. In un articolo apparso nel 2017, The Atlantic descriveva un mondo diviso lungo tre linee. I “restauratori”, innanzitutto europei e giapponesi, che volevano tornare a un ordine internazionale con leadership americana. I “revisionisti” che volevano sostituire il vecchio ordine: i russi a favore di un mondo governato da un concerto di grandi nazioni sul modello ottocentesco diviso in sfere di influenza; e i cinesi che, oltre a ciò, avevano un rilevante interesse per l’ ordine economico globale. Infine i “populisti” che incolpavano le altre nazioni per i propri problemi. Volevano la fine di alcuni elementi d’ordine (come patti di commercio e impegni internazionali per la sicurezza) ma non cercavano un nuovo ordine. Fra loro Trump, i pro-Brexit e la Turchia.
Al G20 di Amburgo, nel 2017, le nazioni si incontrarono per discutere lo stato dell’economia divise fra democrazie liberali e gli altri. Ma i giochi strategici erano iniziati nei meeting bilaterali. Trump ebbe il suo primo incontro con Putin, mentre il leader cinese Xi Jinping e Angela Merkel difendevano la globalizzazione, gli accordi multilaterali e sul clima, un sistema basato su regole condivise: in pratica, i loro surplus commerciali che Trump intendeva ridimensionare.
La guerra dei dazi
Alla fine dei lavori del G20 di Buenos Aires, nel 2018, la tregua temporanea nella guerra dei dazi fra USA e Cina raggiunta da Trump e Xi Jinping non cancellò alcuna delle maggiori differenze fra Washington e Pechino riguardo alle corrette prassi negli scambi, alla difesa della proprietà intellettuale, al trasferimento di tecnologia.
Così il premier giapponese Shinzo Abe, nel summit di Osaka nel 2019, propose di affrontare le controversie più spinose riguardanti il flusso mondiale di dati provocato da Internet delle cose, 5G, machine learning e sistemi di IA perché la questione era di qualità oltre che di quantità. Il G20 avrebbe dovuto fissare le regole, ma gli Stati erano profondamente divisi su chi dovesse essere ammesso al controllo dei dati e, innanzitutto, sull’esclusione della Cina.
Il passaggio da Trump a Biden
Anche nel mezzo della pandemia, il G20 virtuale di Riyadh, nel novembre 2020, si è concluso con scarsi progressi e ampie divisioni fra Trump e gli alleati. Con gli Stati Uniti ostili o indifferenti a molti dei temi proposti, come la WHO, è emersa evidente la difficoltà di fissare un programma comune.
Adesso che la presidenza Biden ha annunciato il ritorno dell’America sia nell’accordo sul clima sia nella WHO, c’è da chiedersi se il G20 possa essere rilanciato con il multilateralismo come fondamento della cooperazione internazionale e di una governance globale. Il punto è che gli equilibri al suo interno in termini di crescita economica si sono notevolmente spostati a vantaggio di Pechino, mentre Paesi come Russia e Turchia sono divenuti molto più assertivi.
Le regole del gioco da cambiare
Con una minaccia diffusa e persistente quale l’attuale pandemia la presidenza italiana del G20, secondo il leader di Confindustria Carlo Bonomi, nel 2021 dovrà affrontare “sfide epocali” e avere capacità di “cambiare le regole del gioco” puntando su un partenariato pubblico-privato in cui il ruolo delle imprese sia nevralgico.
In questo contesto mondiale, a giudizio di Dani Rodrik, rimane pur sempre dirimente che le democrazie restino fedeli ai loro valori anche mentre si impegnano in trattati di commercio e d’investimento con regimi autoritari.
L’Occidente può fare ben poco, secondo Rodrik, per rimodellare il modello economico statale cinese o il suo repressivo regime umano e di lavoro. Ma può concentrarsi sulla difesa degli obiettivi liberali al suo interno e rimanervi fedele con benefici che siano per tutti e non soltanto per un’élite.
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