C’è un elemento che accomuna tutte le forze politiche che si presentano alle elezioni amministrative di inizio ottobre. Tutte, nessuna esclusa, viene da un cammino che negli ultimi anni ha cambiato anche profondamente la loro identità, in cui si è trasformata in maniera sostanziale la visione originaria e le radici dell’esperienza politica.
Le identità stravolte
È così per il Partito democratico, che si è tranquillamente dimenticato di essere nato dalla convergenza dell’anima cattolica-sociale con quella social comunista. E’ così per i Cinquestelle che hanno abbandonato la retorica del ”vaffa” e hanno vestito gli abiti tranquillo-borghesi di Giuseppe Conte. È così per la Lega che ha gettato alle ortiche le istanze del federalismo e dell’indipendenza della Padania per cercare un ruolo nell’ampia e indistinta area del populismo. È così per Forza Italia che ha scordato, ma non da oggi, i fondamentali di una rivoluzione liberale altrettanto annunciata, quanto mai razionalmente difesa. È così per Fratelli d’Italia che, nati dalla frammentazione del Popolo della libertà, hanno prima raccolto i nostalgici post-fascisti di An per poi assumere, con la guida da pasionaria di Giorgia Meloni, un profilo di destra nazional-populista in stretta concorrenza con la Lega di Salvini.
La mappa incerta
Se comunque è certo che le identità passate sono state perdute, non è altrettanto facile individuare quali siano le direzioni intraprese e quali valori si possano consolidare in futuro. Un momento importante di verifica sarà proprio il voto amministrativo tra poche settimane, all’inizio di ottobre, con più di 12 milioni di cittadini chiamati alle urne per il rinnovo delle amministrazioni comunali di oltre mille comuni, tra cui alcune grandi città come Milano, Roma e Torino. Si voterà in una Regione molto particolare, come la Calabria e per due seggi in Parlamento a Siena, dove è atteso il risultato che otterrà il segretario del Pd, Enrico Letta, e a Roma, nel collegio di Primavalle dove è in corsa tra gli altri l’ex-magistrato Luca Palamara e dove i Cinquestelle non sono riusciti (o non hanno voluto) presentare nessun candidato.
Il modello Draghi
Per queste elezioni non ha avuto seguito il modello Draghi, cioè la convergenza di (quasi) tutte le forze politiche attorno a un progetto unitario per uscire dalla crisi della pandemia. Anzi. Cinquestelle e Pd si presentano dappertutto divisi, mentre nel centro-destra, pur con qualche eccezione, ha ripreso vita una sostanziale unità mentre continuano le divisioni sul sostegno al Governo.
Sarà una tornata elettorale caratterizzata peraltro non solo dal voto alle liste e ai candidati sindaci, ma anche dai ballottaggi che con tutta probabilità seguiranno quindici giorni dopo con una scelta ristretta ai due che avranno preso più voti e che dovranno gioco forza coalizzare altre forse per ottenere la maggioranza. L’incognita maggiore sarà probabilmente quella di Roma dove sono almeno quattro i candidati che possono realisticamente aspirare al secondo turno: dal piddino Roberto Gualtieri, alla pentastellata sindaca uscente, Virginia Raggi, dall’outsider ex-pd Carlo Calenda, al candidato del centro destra, Enrico Michetti.
Il Pd in mezzo al guado
È proprio dalle liste in campo che emerge con chiarezza il nodo di fondo dell’identità dei singoli partiti. In mezzo al guado alla ricerca di un nuovo posizionamento è sicuramente il Pd. È significativo come in due tra i più importanti appuntamenti il simbolo del Pd rimanga in secondo piano. A Milano il sindaco uscente, Beppe Sala, presenta una sua lista e quella del Pd è una delle otto liste di sostegno. Alle suppletive di Siena è lo stesso segretario del Pd a rinunciare al simbolo del partito che guida, una scelta bizzarra spiegata “con la volontà di privilegiare allargamento e spirito di coalizione”: e infatti a Siena non ci saranno liste né dei Cinquestelle, né dei renziani, ma sarà interessante vedere i risultati in una città in fibrillazione per il futuro della sua banca simbolo, il Monte dei Paschi.
Enrico non è tranquillo
I risultati del voto, non solo a Siena, saranno peraltro fondamentali per delineare il futuro della segreteria di Enrico Letta, una segreteria che ha provocato non pochi malumori scontentando di volta in volta le diverse anime del partito. C’è così chi non ha gradito la continuazione dell’asse privilegiato con i Cinque stelle sull’onda della coalizione del precedente Governo, mentre sono rimasti sottotraccia i malumori di non pochi cattolici per la chiusura di Letta ad una revisione del progetto di legge Zan dopo il passo diplomatico del Vaticano. Una chiusura che peraltro ha avvalorato l’immagine di un partito radical-chic rispetto ai valori di attenzione civile e di solidarietà. Ovviamente la classe operaia di marxiana memoria e l’impegno sociale simbolo dei cattolici appartengono ai polverosi e scomodi libri di storia.
L’avvocato Conte
A rischiare il posto è anche il neopresidente dei Cinquestelle, anche se un eventuale (e probabile) risultato negativo potrebbe essere giustificato dal poco tempo a disposizione che Conte ha avuto per guidare sulla sua nuova rotta il partito. In effetti l’unica significativa presenza degli ex-grillini è quella di Roma, ma è del tutto verosimile che il giudizio degli elettori più che sulla politica del partito sarà basato sul giudizio sui risultati dell’amministrazione. Peraltro, il sostegno alla Raggi è apparso più formale che sostanziale: la stessa rinuncia alla candidatura a Primavalle, uno dei collegi cinque anni fa vincenti, non è stato certo un favore al sindaco uscente.
Chiara non è chiara
A Torino la mancata ricandidatura di Chiara Appendino ha messo i Cinquestelle praticamente fuori gioco, così come è probabile che loro presenza sarà poco più che simbolica in città come Milano e Bologna. Anche per il partito ormai di Conte il problema è quello di trovare e di saper indicare una chiara identità dopo l’abbandono delle battaglie che solo pochi anni fa animavano un MoVimento in cui si trovano le più diversificate posizioni: dal governismo istituzionale di Luigi Di Maio all’opposizione totale e pregiudiziale a tutto e a tutti di Alessandro di Battista.
Varese sotto la lente
Nel centro-destra scontato il declino di Forza Italia in parallelo con le difficoltà (per l’età e la salute) del padre fondatore, sarà tutto da decifrare il risultato della Lega. Per questo più che alle grandi città sarà interessante guardare ad una delle tradizionali roccaforti del partito di Matteo Salvini: Varese, dove cinque anni fa il Pd aveva eletto Davide Galimberti dopo quasi vent’anni e tre sindaci indicati dalla Lega. Proprio a Varese, infatti, la Lega era nata sulla base delle istanze federaliste e secessioniste di Umberto Bossi, una Lega completamente diversa da quella che Salvini ha portato a diventare un partito nazionale, con un’anima di lotta e di Governo da utilizzare a seconda delle circostanze e delle opportunità. Galimberti chiede un secondo mandato, dopo cinque anni di positiva operosità. La Lega tiene particolarmente a Varese e dopo la rinuncia per motivi di salute di Roberto Maroni, ora punta su di un giovane e dinamico deputato, Matteo Bianchi, con brevi, ma solide esperienze politiche e amministrative.
Le segreterie
La leadership di Salvini non è comunque in discussione, anche perché non ci sarebbe una realistica alternativa. Così come è ancora meno in discussione la segreteria di Giorgia Meloni perché è del tutto verosimile che i risultati possano essere più appaganti di quelli delle precedenti consultazioni e delle politiche del 2018. Se poi la destra riuscisse a riconquistare il Campidoglio sarebbe un successo pieno. Un risultato difficile, ma non impossibile, anche perché a sinistra peserà la divisione dei voti tra Gualtieri e Calenda.
Draghi e il Quirinale
Ma nelle elezioni di ottobre non vi sono solo incertezze. Al contrario di altri appuntamenti del passato (per esempio D’Alema si dimise da presidente del Consiglio nel 2000 dopo l’insuccesso nelle elezioni regionali) questa amministrative non turberanno la vita del governo di Mario Draghi, un Governo che non ha alternativa in questa situazione di emergenza sanitaria, di rilancio economico, di attuazione del piano europeo e, non meno importante, di semestre bianco in cui il presidente della Repubblica non può sciogliere le Camere.
Ma probabilmente l’esito del voto potrà invece condizionare in maniera anche sensibile il prossimo appuntamento di grande rilevanza politica, quello di fine gennaio quando il Parlamento, integrato dai rappresentanti regionali, dovrà eleggere il nuovo capo dello Stato. Il quale, chiunque esso sia, avrà di nuovo il potere di sciogliere le Camere e di indire elezioni anticipate.
Ed è chiaro che se da queste elezioni d’autunno emergesse chiaramente che i rapporti di forza tra i partiti sono profondamente cambiati sarebbe difficile mantenere ancora un anno in vita un Parlamento di fatto delegittimato.
Certo, gran parte degli attuali deputati e senatori non verrà rieletto anche perché entrerà in vigore il taglio di un terzo dei seggi del Parlamento. Ma è la democrazia, bellezza.
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