«The fight is here: I need ammunition, not a ride»
Volodymyr Zelensky
 

Alla fine del 1919, pochi mesi dopo la firma del Trattato di Versailles, John Maynard Keynes pubblicò un testo breve intitolato Le conseguenze economiche della pace. Keynes aveva partecipato alle trattative come consulente del Tesoro britannico, ed era dunque stato un attore diretto di quel momento della storia. Se ci limitiamo alla prima parte del suo saggio – la cui rilettura oggi sembra più che utile – leggiamo che:

«La facoltà di adattarsi all’ambiente è una spiccata caratteristica dell’individuo. Assai pochi fra noi si rendono conto appieno della natura straordinariamente eccezionale, instabile, complicata e precaria dell’organizzazione economica dell’Europa occidentale durante l’ultimo mezzo secolo […] Diamo cioè per garantito il meccanismo economico europeo sul quale si fonda il nostro benessere; ma tale meccanismo è il risultato di equilibri difficili, di costruzioni complicate e fragili, ed è a rischio. Noi consideriamo […] alcuni dei vantaggi recentemente conseguiti come naturali e permanenti […] e tracciamo i nostri piani in conformità. Su queste false fondamenta noi fondiamo i nostri progetti di progresso sociale […] perseguiamo le nostre animosità e le nostre ambizioni particolari, e crediamo che ci resti ancora margine a sufficienza per alimentare, non per sedare, conflitti civili nella famiglia europea»[1]

L’invasione russa dell’Ucraina ha svelato, si spera per l’ultima volta, la falsità delle fondamenta su cui ci troviamo a vivere. Il solo scopo che in queste righe mi propongo è esaminare la ragione principale per cui l’invasione si è trasformata nella guerra feroce tuttora in corso.

Il metodo che ho scelto corrisponde al livello-base della parola teoria, che etimologicamente significa semplicemente guardare le cose come stanno. Non ho intenzione di andare oltre.

Etica, politica. E la questione della responsabilità

L’esistenza morale di una città (o di uno Stato) può essere garantita solo da una fondazione e da fondamenti politici la cui creazione implica e talvolta richiede mezzi che compromettono la morale comune: per esempio forza, crudeltà, inganno. Il classico argomento che attribuisce a Machiavelli la prima separazione tra etica e politica si fonda, tuttavia, sulla falsa premessa secondo la quale l’etica sarebbe lo spazio dell’assoluto, dei valori ultimi, laddove la politica si ridurrebbe a un mero insieme di arti e tecniche in grado di adattare mezzi a fini.

L’antitesi tra politica e morale, attribuita a Machiavelli è, se seguiamo la pista indicata da Isaiah Berlin[2], una falsa antitesi: la linea di demarcazione che traccia Machiavelli non separa valori specificamente politici da valori specificamente morali.

Machiavelli non ha liberato la politica dall’etica, ma ha istituito un’opposizione che va ancora più lontano, tra due modi di concepire la vita, dunque tra due morali:

la morale del mondo pagano (i cui valori essenziali sono, ad esempio, il coraggio, l’energia, il successo, la disciplina, la forza, la giustizia), di fronte alla quale si pone un differente universo morale, quello della morale cristiana (fatta di carità, misericordia, sacrificio, perdono, salvezza dell’anima, fede nella vita futura). In altri termini, il confine tracciato da Machiavelli non sarebbe tra politica ed etica, ma tra due diversi tipi di etica, e la politica non si situerebbe così al di là della morale, ma entro un certo tipo di morale.

Machiavelli in Mariupol - immagine Luca Deaglio

Ma come si pone, allora, il problema di un’autentica relazione tra etica e politica? È davvero possibile ritenere che le esigenze dell’etica possano rimanere indifferenti al fatto che ogni politica usi come mezzo specifico la forza, dietro cui si profila spesso la violenza, come sta accadendo in modi estremi nel conflitto russo-ucraino?

Scelgo due tra le risposte più serie alla questione: la prima è quella weberiana, secondo la quale:

«Anche i primi cristiani sapevano perfettamente che il mondo è governato da demoni e che chi s’immischia nella politica, ossia si serve della politica e della violenza, stringe un patto con potenze diaboliche e, riguardo alla sua azione, non è vero che soltanto il bene possa derivare dal bene e il male dal male, bensì molto spesso il contrario».[3]

L'apprendimento del male

Non esiste etica al mondo – è questa la prima istruzione weberiana – che possa trascurare la questione dei mezzi: per raggiungere “buoni” scopi, gli individui sono spesso indotti a considerare mezzi moralmente discutibili, o perlomeno pericolosi, insieme alla possibilità o l’eventualità di conseguenze nefaste. Nessuna etica, prosegue Weber, sarà in grado di dire in quale momento e in quale misura uno scopo moralmente buono possa giustificare i mezzi e le conseguenze maggiormente rischiose. La competenza dello sguardo weberiano, qui solo appena accennata, in merito al tema del rapporto tra politica e etica trova un’eco opportuna e fertile nell’apprendimento machiavelliano del male:

«Perché uno uomo che voglia fare in tutte le parte professione di buono, conviene rovini infra tanti che non sono buoni. Onde è necessario a uno principe, volendosi mantenere, imparare a potere essere non buono, et usarlo e non usare secondo la necessità».[4]

Tra Weber e Machiavelli c’è qualcosa di più di una semplice connivenza intellettuale.

Un’affinità di concezione li avvicina: agire ragionevolmente, secondo la prospettiva weberiana, significa assumere la responsabilità della decisione che offre la migliore probabilità di raggiungere lo scopo previsto. Anche la tesi machiavelliana dell’apprendimento del male è seria e diretta, come quella weberiana: non bisogna imparare a essere buoni, ma imparare a poterlo non essere, qui e ora, sulla terra, nel presente, nel mondo reale, non immaginario.

Foto: Oleksii Kyrychenko

«Qui sto, non posso fare altro»

Nonostante l’autorevolezza delle due posizioni appena sintetizzate, il caso russo-ucraino è la dimostrazione fattuale che non tutto può essere tradotto in mezzi-in-vista-di-fini. Nemmeno in politica. Perché, come scrive Guido Rampoldi su Il Domani (4 aprile 2022), «la guerra è il territorio privilegiato dell’eterogenesi dei fini»: in altre parole, i fini che la storia realizza non sono quelli che gli individui o le comunità si propongono, e mai come in un conflitto le conseguenze delle nostre azioni intenzionali "cadono" fuori dalle nostre stesse intenzioni, che poi era quanto Keynes temeva, nelle sue analisi con cui si è aperto questo breve intervento.

L’argomento e le ragioni dell’Ucraina costringono quindi a reindirizzare lo sguardo, stavolta non sulla priorità di mezzi su fini, o viceversa, ma sulla necessità – qui e ora - di una riflessione sulle condizioni di possibilità della libertà politica.

Torniamo a Machiavelli: il principale dissidio (desunione) machiavelliano concerne l’impossibilità di soddisfare insieme l’umore dei “grandi” (i nobili) e quello dei “più” (la plebe). I primi vogliono dominare, i secondi non vogliono essere dominati. I primi si definiscono per un desiderio di dominio; i secondi si definiscono per un desiderio di libertà. Come gli Ucraini.

The Eggs Speak Up!

Se è vero che la prima cosa che muore in guerra è la verità, la verità fattuale sembra suggerire che gli Ucraini vogliono, prima di ogni altra cosa, non essere dominati. La loro resistenza è pari alla resistenza a ogni tentativo indebito di dominio (sulla persona e sui beni): nel momento in cui siamo dispossessati di ciò che costituisce la nostra libertà, ad esempio i nostri beni e i nostri diritti, non ci riusciremo più a distinguere da altri individui che avranno perduto anch’essi la loro libertà: come loro, ci ridurremo a non ricercare se non la mera conservazione della nostra esistenza. Se per desiderare bisogna essere liberi, e se la libertà di tutti è garantita da una città o da uno stato liberi, allora la libertà di una città deve essere difesa a qualsiasi prezzo, perché difendere quella città significa difendere il bene.

Ecco, dunque, la ragione principale di questa guerra.

Quando gli ucraini – weberianamente – dichiarano “qui stiamo, non possiamo fare altro”, stanno rispondendo al più classico argomento realista dell’omelette: per fare un’omelette bisogna risolversi a rompere delle uova.

Ma gli ucraini hanno scelto di non essere più parte delle uova rotte per la maggior gloria della frittata, o, per parafrasare un non così noto saggio di Hannah Arendt del 1951[5], si stanno limitando a confessare al mondo che non esiste alcuna frittata, e che ci sono scarse probabilità che da così tante uova rotte una frittata verrà mai fuori. In effetti c’è un solo principio che enuncia con la stessa implacabile chiarezza di quello secondo cui «non si può fare una frittata senza rompere le uova» la massima diametralmente opposta dell’azione politica. Venne formulato quasi per caso in un’unica frase da uno degli uomini più solitari della generazione passata, Georges Clemenceau, quando esclamò, improvvisamente durante la sua battaglia nell’affaire Dreyfus: “L’affaire d’un seul est l’affaire de tous” (l’affare di uno è l’affare di tutti).

Le uova, stavolta, hanno alzato la voce.

 

[1] J. M. Keynes, Le conseguenze economiche della pace, Milano, Treves Editore, 1920.
[2] Cfr. I. Berlin, “The Originality of Machiavelli”, in Against the Current: Essays in the History of Ideas, Hogarth, London 1979, p. 45.
[3] Cfr. M. Weber, La scienza come professione, la politica come professione, Torino, Einaudi, 2004.
[4] Cfr. N. Machiavelli, Principe, cap XV.
[5] Cfr. H. Arendt, “Le uova alzano la voce”, in Pensiero, azione e critica nell’epoca dei totalitarismi, Milano, Feltrinelli, 2006.

Trincee sotto la neve in Donbass - foto Gabriele Micalizzi