Che cosa dobbiamo aspettarci dal mercato dei cambi per il 2021? Quali scenari si potrebbero determinare analizzando gli eventi più recenti, dalla pandemia al cambio di inquilino alla Casa Bianca? In che modo la geopolitica potrà condizionare l'andamento delle valute?
Un tempo le guerre si combattevano con eserciti di soldati, mettendo di fronte le truppe di terra e talvolta anche le rispettive flotte marine. Il tutto cercando di poter sfidare l’avversario sul terreno a lui meno consono. Poi è stata la volta dell’artiglieria pesante e dell’aviazione. Oggi, nel mondo occidentale, il concetto di battaglia è senz’altro cambiato. Molto spesso non ci sono truppe militari coinvolte, ma semplici numeri. Quelli della borsa e della finanza, in grado di muovere miliardi di euro, dollari o altre valute nel giro di frazioni di secondo. Al lettore verranno in mente i mercati azionari e probabilmente anche quelli dei titoli di Stato, dove la salita o la discesa degli spread genera i ben noti spread fra i rendimenti delle obbligazioni dei vari paesi.
Ma sarebbe riduttivo fermarsi qui. I maggiori flussi di denaro, infatti, circolano sul mercato dei cambi. Con oltre 6.000 miliardi di dollari negoziati ogni giorno è con ampio distacco il più grande ed il più liquido in assoluto. Qui troviamo gli scambi di chi importa o esporta beni, le attività delle banche centrali e quelle di investitori istituzionali e non che provano a trarre beneficio dai movimenti dei cambi. È quindi facile comprendere come per un paese - ma anche per un’area economica nel caso dell’euro - il valore della moneta sia fondamentale per tutte le transazioni con l’estero. Un tempo le nazioni si impegnavano per mantenere forte la loro valuta. Oggi le cose sono cambiate: la guerra dei cambi spesso determina movimenti opposti, con una sfida fra banche centrali ad abbassare i tassi di riferimento per mantenere debole la propria valuta, rendendo quindi indirettamente più competitiva la merce prodotta per l’export.
La sfida tra le Banche centrali
Non è certo un caso che uno dei maggiori punti di attrito fra Usa e Cina negli ultimi anni coinvolgesse l’aspetto valutario, con Donald Trump propenso a fermare la svalutazione del renmimbi contro il dollaro. D’altro canto, il Tycoon, fin da inizio 2017 si era già occupato di valute con i suoi tweet, spesso borderline. In quel caso il pericolo arrivava dal cambio fra euro e dollaro, scivolato pericolosamente verso la pari.
La conseguenza? Un euro low cost, in grado di favorire l’export del Vecchio Continente ai danni dei prodotti americani.
Ma veniamo ai giorni nostri, analizzando i movimenti recenti visti sul mercato dei cambi, che ci raccontano una storia diversa. Il 2019 si era chiuso con una scarsa volatilità, mentre l’euro/dollaro sembrava nuovamente trascinarsi verso la parità. Anche il 2020 era iniziato sulla falsariga, con una nuova discesa del cambio sotto 1,10. Sul finire di febbraio, poi, una prima esplosione di volatilità, generata dal tragico arrivo della pandemia.
Il “cambio dei cambi”, nel giro di una manciata di sedute volava a 1,14, per poi rimangiarsi tutta la salita altrettanto rapidamente. Ma il recupero del dollaro era soltanto temporaneo: già a giugno, sui nuovi stimoli monetari della Federal Reserve, l’EUR/USD tornava a ridosso dei massimi di maro, per poi romperli con forza al rialzo. Durante l’estate la situazione pareva stabilizzarsi in un canale laterale (quello che in gergo si definisce trading range) identificabile fra 1,165 e 1,19, in attesa delle elezioni presidenziali. Proprio il voto americano, con la lenta vittoria, quasi in “slow-motion”, di Joe Biden forniva nuovo carburante agli acquisti sulla moneta unica. Ed ecco cedere anche il muro di 1,19, con le quotazioni che tornavano con forza sopra 1,20 prima e successivamente anche oltre 1,21, sui massimi da due anni e mezzo.
Tra rally e rialzi
A differenza dei rally primaverili ed anche del movimento visto in estate, l’attuale rialzo pare poggiare su basi più solide anche dal punto di vista macroeconomico e forse anche geopolitico, anche per via della nuova Presidenza Usa. O almeno, questa è la convinzione che si respira sui mercati. Certo, la sorpresa è sempre dietro l’angolo, ma anche per il 2021 il trend potrebbe proseguire in questa direzione, con ipotetici target verso l’area 1,25.
In questa strana sfida al ribasso il rialzo dell’euro diventa un elemento perlopiù negativo per l’economia del Vecchio Continente. Tende infatti a penalizzare l’export, che si trova di fronte ad una concorrenza americana (e degli altri paesi che prezzano le loro merci in dollari) che, di fatto, offre prodotti che costano quasi dieci punti percentuali in meno rispetto ad un anno fa. Ne beneficiano invece gli importatori europei, che lavorano a sconto. Ma che sono complessivamente una minoranza rispetto agli esportatori.
In sintesi, il 2020 si chiude con un netto indebolimento del dollaro.
Tre osservati speciali per il 2021
In primis, il forte apprezzamento delle valute oceaniche, con il dollaro neozelandese sugli scudi. La divisa di Wellington, infatti, dopo essere crollata a marzo in area 0,55 contro il dollaro Usa ha progressivamente ripreso forza, arrivando a superare quota 0,70. Le parole del governatore della Banca Centrale, che ha allontanato l’ipotesi di tassi negativi, hanno ulteriormente rinvigorito la valuta nazionale. Lo scenario è simile per quanto riguarda il dollaro australiano, anch’esso debole nel primo trimestre 2020 e successivamente in rimonta, fino ad arrivare a ridosso di 0,75 contro il dollaro americano.
Una seconda valuta da tenere sotto i riflettori è senz’altro la lira turca, che nel 2020 ha proseguito il trend degli ultimi anni di forte deprezzamento, arrivando a nuovi minimi storici in area 8 contro il dollaro. Il paese ha perso credibilità a livello internazionale ed anche gli investitori sono ormai da tempo in fuga, con conseguenze drammatiche anche per la divisa.
Infine, la sterlina, che continua a danzare sulle grigie melodie dettate dai negoziati della Brexit, in attesa di conoscere il suo destino. Ogni volta in cui l’accordo sembra più probabile si registrano flussi in acquisto sulla divisa di Sua Maestà, che perde invece terreno quando i negoziati paiono incagliati. Nel complesso il pound vale circa il 20% in meno contro l’euro rispetto al giorno del voto sulla Brexit e l’11% in meno contro il dollaro. In questo caso, però, non vale la precedente regola dei benefici legati alla svalutazione per esportare, in quanto il Regno Unito è un paese che ha bisogno di importare un’ampia gamma di beni, esportando quasi soltanto servizi. Volenti o nolenti, per via delle strettissime deadline di fine anno sulla Brexit, anche per la sterlina dovremmo veramente essere a ridosso del momento della verità.
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