Ripartire. Il titolo dell’ultimo Rapporto Giorgio Rota su Torino sarebbe un buon auspicio anche per uno dei settori industriali più importanti per l’Europa e per il nostro Paese: l’automotive. E non solo perché sotto la Mole, one company town, si trovano gran parte dei saperi made in Italy sul settore.
Il comparto che deve ripartire dalla pesante recessione in cui la pandemia lo ha relegato, con gli ultimi dati Anfia di novembre che mostrano una caduta del 29% delle immatricolazioni italiane cumulato in corso d’anno e con lo stesso scenario negativo che compare in Europa, con un calo del 26%. Ripartenza assai difficile, se non altro per effetto della concomitante fase di transizione che il settore sta percorrendo: l’abbandono del tradizionale motore endotermico sta modificando pesantemente gli investimenti e il comportamento strategico delle imprese, da una parte, e quello dei consumatori, dall’altra.
Il futuro e la guida autonoma
Le scelte imprenditoriali sono state decise da tempo, perchè le imprese cercano di anticipare il futuro (e con il gioco delle aspettative autorealizzanti contribuiscono attivamente a crearlo). Ne abbiamo pieno riscontro nelle attività di ricerca, progettazione e sviluppo, che concentrano le migliori risorse manageriali delle imprese automotive, nonché gran parte dei nuovi investimenti. Alcuni risultati sono già significativi, anche se il bello arriverà tra qualche anno con l’introduzione dell’auto a guida autonoma, come anticipano le notizie su FCA e Wolkswagen.
Oggi tutti i produttori mostrano con orgoglio i numerosi modelli che stanno per entrare sul mercato, con un’elevata presenza di auto “pienamente” elettriche, e non solo ibride. Purtroppo però, la domanda è ancora bassa, sia per il minor reddito disponibile a causa della crisi, sia per le incertezze legate alle modalità di utilizzo dei nuovi modelli.
Mentre il primo limite è “facilmente” superabile con la ripresa dell’economia, con la felice congiuntura attesa sin dalla prossima primavera (anche se il nostro PIL ritornerà sui livelli del 2019 solo nel 2023), il secondo aspetto è particolarmente problematico e mostra in tutta la sua cruda realtà che la svolta elettrica è un’innovazione di “sistema” e come tale non può essere gestita dal solo mercato, e cioè dalle imprese che producono e dai consumatori che acquistano, ma necessita di un intervento superiore: una politica industriale che favorisca la transizione della filiera automotive, e non si fermi ai semplici incentivi al consumo.
Non basta produrre o acquistare auto. Occorre anche che si sviluppino le infrastrutture e i servizi connessi al nuovo paradigma tecnologico, una filiera complessa e particolarmente lunga. Va dalla produzione di elettricità (che non potrà utilizzare l’attuale infrastruttura ma dovrà evolvere verso le smart-grid), all’installazione delle ricariche pubbliche (su strade e autostrade) e private (dentro le nostre case), all’evoluzione dei servizi tradizionali (gli alti costi di un’auto elettrica richiedono nuovi servizi finanziari e assicurativi), alla nascita di nuovi servizi (batterie da riciclare, riparazioni, assistenza tecnica).
Ma è soprattutto dentro la filiera manifatturiera che stanno cambiando le cose, come indica il recente rapporto CAMI-Cciaa di Torino, con quasi il 30% delle imprese della componentistica che lavorano sul nuovo paradigma tecnologico. E l’attenzione per il cambiamento non può che aumentare e diffondersi dai leader della componentistica di primo livello alle piccole imprese sub-fornitrici, con i rischi però di un impatto pesantemente negativo sulle attività tradizionali, costrette a riconvertirsi, negli impianti produttivi ma anche nel capitale umano, che necessita di nuova formazione.
Purtroppo, la situazione economica e patrimoniale delle imprese automotive non era brillante già nel 2019, come indicato in un recente contributo Ircres-Cnr, e quest’anno non può che peggiorare. Anche per questo motivo, la tenuta dell’ampia filiera italiana, che da FCA si estende ai componentisti e ai servizi, è di valenza strategica in questo periodo storico caratterizzato dalle necessità di rilanciare la ripresa, per almeno due motivi. Il primo si riferisce all’importanza “quantitativa” che la filiera ha per le esportazioni - grazie al buon posizionamento dei nostri componentisti nella catena del valore dell’industria europea, al cui interno primeggiano le esportazioni verso gli assemblatori finali tedeschi – e per l’occupazione (e qui c’è ancora un importante ruolo di FCA). Il secondo motivo ha un ambito dinamico: la branca degli autoveicoli viene indicata nelle tavole intersettoriali dell’Istat con il maggior coefficiente di attivazione (insieme all’edilizia) nella produzione degli altri settori economici, quali vetro, meccanica, macchinari, plastica, tessuti, ecc. Detto in altre parole, con migliaia di componenti assemblati in un’auto è facile comprendere come questa filiera sia un importante catalizzatore intersettoriale della ripresa, un target a cui mirare per favorire la ripresa generalizzata dell’economia.
Del resto, negli anni ’80 si affermava «Ciò che va bene alla Fiat va bene all’Italia»: una leggenda politica che aveva un fondo di verità scientifica. E che oggi può essere estesa alla realtà di tutta la filiera automotive.
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