Il World economic forum di Davos si è chiuso senza grandi clamori. Un’edizione in presenza, secondo i vecchi schemi, dopo l’emergenza della pandemia. Un’edizione priva dei grandi della terra e apparentemente senza risultati. In fondo la crisi della globalizzazione non poteva che avere effetti su quella che è stato, per anni, l’altare laico su cui si celebravano, fin dal titolo, le glorie del mondo globale.
Eppure in quei luoghi mirabilmente descritti da Thomas Mann nella sua “Montagna incantata” si è tornati a parlare di politica, di economia e ovviamente anche di affari e di finanza. Dallo stesso palco da cui nel 2017 il presidente cinese XI Jinping si era posto alla guida di una grande strategia di espansione globale, quest’anno la seconda linea rappresentata dal vice primo ministro Liu He, ha chiesto, quasi supplicato, di ridare fiducia a Pechino dopo la dura battaglia della pandemia.
I vecchi equilibri in frantumi
Un esempio tra i tanti di come la riapertura degli scambi e la ripresa dei commerci siano diventate un auspicio in un mondo che ha in pochi mesi mandato in frantumi equilibri consolidati: quelli di una pace travolta dall’aggressione russa all’Ucraina, quelli della stabilità monetaria, sconvolta dall’inflazione, quelli di una finanza sostenibile, messa in crisi da una enorme spesa pubblica per limitare i danni della pandemia prima e per moltiplicare le spese militari ora.
Eppure proprio a Davos non si è celebrato il funerale della globalizzazione, anzi si è riaffermato un metodo, quello del dialogo, del confronto, dell’analisi. Pur senza nascondere le difficoltà si è cercato di mettere in primo piano quello che può unire in un reciproco interesse. In fondo parafrasando il famoso aforisma di Frédéric Bastiat (“Dove passano le merci non passano gli eserciti”) si potrebbe dire che dove le persone si incontrano non parlano le armi.
Sono mancati i grandi (ma l’India era in prima fila)
Hanno avuto l’occasione di incontrarsi 600 responsabili di grandi imprese internazionali. Oltre una cinquantina di capi di Stato e di Governo. Decine e decine di ministri provenienti da tutto il mondo. Sono mancati i grossi nomi, quelli che di solito garantiscono momenti di grande attenzione mediatica, magari solo perché ripetono le solite cose. E’ passato comunque il cancelliere tedesco Olaf Scholz, così come dieci commissari europei insieme alla presidente Ursula von der Leyen. La dimensione globale non è mancata, a dispetto delle immancabili cassandre.
Ha avuto così particolare efficacia la presenza dell’India, che sarà quest’anno alla presidenza del G20, un paese che sta superando come popolazione una Cina in brusca frenata demografica. Proprio la demografia è invece uno dei punti di forza di New Dehli: più della metà della popolazione rientra nella fascia di età lavorativa di 15-64 anni, con in proiezione effetti sicuramente positivi a livello di competitività economica. Soprattutto a fronte dei paesi che devono destinare crescenti risorse pubbliche per il peso degli anziani sui sistemi previdenziali e sanitari.
In questa prospettiva il vero grande tema che ha percorso il confronto sulla nuova globalizzazione è stato quello degli aiuti di Stato. I fantasmi del vecchio protezionismo, quelli che dopo essere stati messi alla porta da decenni di negoziati nell’ambito del Gatt e non solo, si stanno infatti ripresentando in forme nuove, più agguerrite di prima.
Con tante, anche nobili, motivazioni. La necessità di incrementare le politiche di difesa dell’ambiente, per esempio, con scelte di investimento industriale che non sarebbero giustificabili con i tradizionali parametri del mercato. Allo stesso modo la volontà di garantire il corretto funzionamento delle catene del valore: è ancora vivo l’allarme per la carenza di chip e la decisione di Stati Uniti ed Europa di sostenere gli investimenti per ridurre la dipendenza da Taiwan e dalla Corea.
Ha avuto così particolare efficacia la presenza dell’India, che sarà quest’anno alla presidenza del G20, un paese che sta superando come popolazione una Cina in brusca frenata demografica. Proprio la demografia è invece uno dei punti di forza di New Dehli: più della metà della popolazione rientra nella fascia di età lavorativa di 15-64 anni, con in proiezione effetti sicuramente positivi a livello di competitività economica. Soprattutto a fronte dei paesi che devono destinare crescenti risorse pubbliche per il peso degli anziani sui sistemi previdenziali e sanitari.
Il grande ritorno degli aiuti di Stato
In questa prospettiva il vero grande tema che ha percorso il confronto sulla nuova globalizzazione è stato quello degli aiuti di Stato. I fantasmi del vecchio protezionismo, quelli che essere stati messi alla porta da decenni di negoziati nell’ambito del Gatt e non solo, si stanno infatti ripresentando in forme nuove, più agguerrite di prima.
Con tante, anche nobili, motivazioni. La necessità di incrementare le politiche di difesa dell’ambiente, per esempio, con scelte di investimento industriale che non sarebbero giustificabili con i tradizionali parametri del mercato. Allo stesso modo la volontà di garantire il corretto funzionamento delle catene del valore: è ancora vivo l’allarme per la carenza di chip e la decisione di Stati Uniti ed Europa di sostenere gli investimenti per ridurre la dipendenza da Taiwan e Corea.
La tentazione del protezionismo
Il protezionismo è peraltro una costante che si ripresenta periodicamente sotto la più varie forme: dai sostegni diretti alle industrie alle barriere alle importazioni, dalle normative asimmetriche ai costi della logistica.
Alla fine del 700 il primo segretario al Tesoro americano, Alexander Hamilton, sostenne che gli argomenti di Adam Smith a favore del libero scambio erano razionalmente veri, ma all’atto pratico inevitabilmente falsi. Hamilton, la cui immagine compare sulla banconota da 10 dollari, è comunque passato alla storia non per le sue idee sulla politica industriale, ma perché fu il grande promotore della creazione di una banca nazionale.
Il divieto degli aiuti di Stato alle imprese, con la prospettiva della creazione di un mercato libero e aperto, è stato e rimane uno dei capisaldi nella dinamica dell’Unione europea. Ma non ci può essere regola senza eccezioni. E infatti con il Covid 19 anche l’Europa ha abbassato la guardia: “Gli aiuti – afferma un documento della Commissione - devono essere orientati a una crescita sostenibile a lungo termine, e in particolare ad un futuro più verde e digitale e possono essere concessi in diverse forme: sovvenzioni a fondo perduto, agevolazioni fiscali o differimenti, tassi di interesse agevolati sui prestiti o garanzie finanziarie”.
E di fronte ai massicci interventi finanziari degli Stati Uniti per proteggere e rilanciare le proprie imprese l’Europa non può stare a guardare anche perché potrebbe avere la stessa potenza di fuoco finanziaria.
Per l’Europa decisiva una strategia unitaria
Su questo fronte il problema principale del Vecchio continente è quello di avere il coraggio di marciare unito riportando ad unità le vie nazionali, peraltro già intraprese da Germania e Francia con i loro piani di sostegno alle imprese. La strada tracciata dal Next Generation Ue è un esempio concreto. I fondi comuni già presenti, come il Mes, costituiscono un’altra prova di visione unitaria (e per questo l’Italia dovrebbe unirsi a tutti gli altri paesi al più presto abbandonando i vincoli ideologici e i pregiudizi sovranisti).
I tempi sono rapidamente cambiati e cambieranno in maniera imprevedibile. “Non aspettiamoci - scriveva Mario Deaglio nella conclusione del rapporto “Il mondo post globale” – soluzioni su misura ai nostri problemi dai pensatori e dalle scuola di pensiero del passato”.
C’è un mondo da salvaguardare e un’economia da difendere e rilanciare. I mezzi (anche finanziari) ci sono. La forza dell’Europa deve manifestarsi ancora di più in questi momenti difficili.
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