Immaginiamo una catastrofe nucleare che colpisca irrimediabilmente l’universo della scienza: laboratori in fiamme, fisici perseguitati, libri distrutti. Un movimento politico anarcoide e sovversivo assume il potere, abolisce il sapere scientifico, sopprime in modo del tutto arbitrario gli scienziati superstiti, ma per fortuna ha vita breve.
Con il ritorno a una presunta normalità, alcuni illuminati sopravvissuti cercano di ricostruire la conoscenza scientifica, pur non ricordando con esattezza in cosa consista: sono rimasti solo dei frammenti, che vengono riorganizzati alla meno peggio. I principi originariamente inseriti in un contesto di credenze, pratiche e modalità consolidate di pensare, sentire e agire che li rendevano comprensibili sono scomparsi, e il linguaggio della scienza che resta diventa così definitivamente incomprensibile e arbitrario, scollegato dalla realtà, espressione di teorie ideologiche e soggettivistiche, in eterno conflitto tra loro, e porta irrimediabilmente con sé l’impossibilità di avere una visione di insieme delle singole scienze e, dunque, delle esperienze umane.
Così, “esplosivamente”, si apre Dopo la virtù. Saggio di teoria morale, uno dei testi più noti del filosofo scozzese (tuttora in vita) Alasdair MacIntyre. E questo è nulla, osserva sempre MacIntyre: se in un futuro distopico – come anche nel nostro presente pandemico – la scienza potrebbe essere colpita in modi simili, una catastrofe del genere, scrive l’autore, per l’universo morale è già da tempo realtà.
I frammenti e le rovine
Abbandoniamo ora MacIntyre, e guardiamoci intorno: la riflessione e la pratica morale contemporanee assomigliano sempre più anch’esse a un insieme di frammenti, una collezione indistinta e pressoché inutilizzabile di schemi concettuali dei quali si sono perse origine e significato. I pochi animati dall’intenzione di fare ordine in questo campo di rovine, e superare la crisi di ogni posizione morale sembrano, paradossalmente, ampliarne le dimensioni: nell’era smart & social del “3 minuti di lettura” sui quotidiani e sui nostri E-Reader, prendersi il tempo di riflettere, cioè pensare a ciò che facciamo, appare ormai francamente démodé.
Una dinamica simile è probabilmente all’origine della nostra sempre più ricorrente incapacità di trovare criteri per definire posizioni morali convincenti, giustificabili, e coerenti. Un’incapacità che corre lungo due serie di binari, che portano entrambi tuttavia verso un punto morto. Cerchiamo di individuarli, prima di considerare una terza proposta.
Le parole fanno cose
Sono due le principali reazioni alla impasse della riflessione morale in atto nella contemporaneità più spinta: l’”emotivismo”, ovvero quella concezione secondo la quale ogni giudizio di valore si riduce ad essere espressione di una preferenza soggettiva, di un sentimento o di un atteggiamento (“mi piace”, “non mi piace”). Alla sentiment analysis twittata risponde, sul versante opposto, lo “specialismo”, un insieme di argomentazioni valutative e normative che danno per scontato il riferimento a criteri condivisi impersonali in forza dei quali si assume che una delle parti in causa alla fine avrà ragione. Proviamo a fingere che questo overlapping consensus esista, e che le argomentazioni a sostegno delle diverse tesi in campo – su questioni quali che siano, politiche o morali in questo caso non fa differenza - non siano, molto spesso, poverissime, circolari, assertive, petulanti, arroccate. Ciò che resta, in entrambi i casi, è un dialogo tra sordi.
La funzione operativa del linguaggio
Il mio scopo, qui e ora, non è tuttavia negare che l’emotivista o lo specialista abbiano libertà di parola, né rifiutare l’importanza di proteggere il discorso libero nella nostra vita di tutti i giorni. Il punto nodale su cui vorrei concentrare l’attenzione ha a che vedere con il linguaggio attraverso cui sia l’emotivista sia lo specialista si esprimono. È necessario, oggi più che mai, evidenziare il fatto che il linguaggio ha un carattere e una funzione non solo descrittiva, ma anche operativa: il linguaggio, in altre parole, svolge nelle nostre vite anche una funzione di “prestazione” (o performance), nella quale esso si configura come un fare, legato cioè all’azione, all’esecuzione di atti. E ogni azione porta con sé una conseguenza.
Per un verso, le parole dell’emotivista corrono spesso il rischio di trasformarsi in “fighting words”, parole che implicano ingiuria o istigazione a condotte dannose, come il caso Trump dimostra esemplarmente.
Only Whites
Sono parole che fanno cose, come sostiene John Austin – filosofo del linguaggio degli anni Sessanta ma anche, non casualmente, tenente colonnello nei servizi segreti britannici durante la II Guerra Mondiale: ogni espressione linguistica è contemporaneamente anche un atto, e come tale produce degli effetti. Nell’esempio estremo della panchina che abbiamo messo in copertina, le parole “Only Whites” non descrivono soltanto una condizione, ma classificano i neri come inferiori, legittimando un comportamento discriminatorio.
Quelle parole classificano il valore di alcune persone, legittimando condotte nei loro confronti, privandole di potere, e costruendo così ineguaglianze ingiustificate.
Le verità auto-referenziali
Per un altro verso, la tentazione principale in cui rischia di cadere lo specialista è quella di assumere una fisionomia “oracolare”: immerso nella sua "verità" auto-referenziale, lo specialista perde il contatto con il mondo e le cose umane, con la realtà effettuale delle opinioni e dei linguaggi diversi dal suo, e da quello della sua “famiglia” di specialisti. Lo specialista si preoccuperà così sempre più di trasmettere le (sue) verità più alte solo a coloro che (secondo lui) sono capaci di intenderle.
L’eccesso di “immersione” dell’emotivista e l’eccesso di “astrazione” dello specialista portano al medesimo esito nefasto: la perdita di consapevolezza che, benché abitiamo mondi spesso separati, qualitativamente differenti, e in conflitto, apparteniamo tutti e tutte però alla medesima comunità discorsiva. Quando entriamo nello spazio comune della politica, trovare un linguaggio pubblico condiviso, cioè un linguaggio civile, dovrebbe essere la nostra priorità.
Una testa ben fatta
Per concludere, un resoconto razionale della discussione politica intelligente sulle nostre questioni pubbliche è difficile, ma non impossibile. Covid ci ha mostrato quanto siamo - per tornare a MacIntyre – animali dipendenti razionali.
Le questioni pubbliche ci toccano, toccano la nostra sorte condivisa di cittadini e cittadine: sarà meglio affrontarle con una testa ben fatta, più che ben piena.
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