Sarà forse un fisiologico effetto di questa maledetta pandemia, ma se qualcosa comincia ad andare storto in Cina ci prendiamo subito un bello spavento. D’altra parte il battito d’ali di farfalla che crea un uragano dall’altra parte del mondo non era solamente un film di fantascienza, ma anche una famosa teoria matematica. Mettiamoci poi che la farfalla in questione è un colosso finanziario ed immobiliare e lo spavento diventa molto più che giustificato.

Duecentomila dipendenti, come l’intera popolazione di Parma o Trieste, compresi anziani, bambini e neonati. Un indotto che impiega quasi 4 milioni di persone. Settanta miliardi di fatturato ogni anno, pari più o meno a tre leggi di bilancio nostrane, di quelle lacrime e sangue. Milletrecento progetti immobiliari in quasi 300 città della Cina. E partecipazioni dirette in società sportive, automobilistiche, finanziarie, culturali, turistiche e tanto altro ancora.

Il colosso oltre la Muraglia

È tutto questo Evergrande, che da sola fa il 2% del PIL cinese, un’immensità. Ma tutto questo ha un prezzo, per la precisione 300 miliardi di dollari. A tanto ammonta il debito attuale stimato del gigante cinese. Per caprine l’entità basta pensare che il default argentino del 2002 avvenne su un debito di 90 miliardi e la ristrutturazione drammatica di quello greco riguardava circa 200 miliardi di passività. Un prezzo divenuto del tutto insostenibile per una società che continua a costruire case che restano, semplicemente, vuote.

Un milione e mezzo di appartamenti costruiti negli ultimi mesi e mai venduti. Pare che in Cina ci siano al momento intere città completamente deserte. Grattacieli fantasma. Vi ricordate quando vigeva la legge del figlio unico per limitare la crescita demografica? Bene, ora la legge permette di avere addirittura tre figli, ma i figli non si fanno. In questo caso una lettera non fa la differenza: case uguale casse (di Evergrande), vuote! Ed è così che le prime (maxi)-cedole sulle (maxi)-obbligazioni non vengono onorate. E come un trauma mai guarito riappare lo spettro di ogni crisi: Lehman Brothers. Al solo nominarla sale un brivido di terrore. Gli impiegati con gli scatoloni in mano, il crollo delle borse, il panico generale, l’effetto domino. Con l’aggravante non da poco di una pandemia non ancora sconfitta. Una nuova Lehman, insomma, in tempi di Covid.

Un disastro, che diventa anche un po' paradossale.

Perché Evergrande è potuta crescere così tanto anche grazie al fallimento della Lehman Brothers. Negli anni bui della grande crisi, infatti, gli investitori cinesi smisero di scommettere sul mercato americano e decisero di dirottare risorse verso il mercato interno. Riempiendo quindi di liquidità e soldi le promettenti società cinesi, che rappresentavano in quel momento porti più sicuri in cui ripararsi aspettando che l’uragano Lehman finisse di abbattersi sugli Stati Uniti e sui propri partner occidentali. Tanto che Xu Jiayin, il fondatore di Evergrande, decise di quotare la propria società in borsa (in Cina), proprio pochi mesi dopo che dalla Borsa (americana) usciva Lehman. E, dopo un po' di assestamento iniziale, il prezzo delle azioni di Evergrande ebbe una vera e propria impennata. Ancor più vertiginosa di quella che aveva caratterizzato Lehman. E poi il crollo, verticale. Meno 85% nell’ultimo anno. Destino molto simile a quello vissuto dalla banca americana qualche anno prima. E a vedere i grafici oggi sembra di assistere ad una triste storia che si ripete. Più che teoria del caos, quindi, legge del contrappasso.

Il confronto
Il confronto
Fonte: elaborazione di Mondo Economico su fonti varie

Xu Jiayin, in fondo, ricorda non poco Henry Lehman, il ventitreenne che diede inizio all’impero finanziario americano quando fu raggiunto negli Stati Uniti dai due fratelli, emigrati anche loro dalla Baviera e figli di un mercante di bestiame. Anche Xu, figlio di una famiglia poverissima, si è completamente fatto da solo. E Evergrande, come la Lehman, è il frutto di una crescita stratosferica fatta di enormi iniezioni di capitale, spesso a debito, e acquisizioni di società nei più disparati settori, anche molto poco collegati al proprio core business, ovvero costruire case. Evergrande ne ha costruite davvero tante di case. Più che case, in realtà, grattacieli e abitazioni di lusso per l’emergente e rampante borghesia cinese.

La morsa letale

Ciò che sembrava un’insaziabile fame di nuovi alloggi, però, ad un certo punto si è arrestata. Mentre il governo di Pechino decideva di porre un freno all’eccessivo indebitamento societario, stabilendo limiti stringenti al rapporto tra debito e capitale.e dando un preciso e forte segnale politico agli attuali e futuri capitani del capitalismo cinese. Basta pensare che Xu Jiayin veniva lodato come uno dei modelli esemplari di imprenditoria vincente, anche quando accumulava dividendi lunari e col senno del poi del tutto ingiustificati, mentre oggi c’è chi ne chiede persino l’arresto. Da una parte il freno all’opportunità di raccogliere ulteriori capitali a debito, dunque, e dall’altra centinaia di migliaia di case invendute.

Il risultato è la morsa letale in cui Evergrande si è trovata negli ultimi mesi, non riuscendo più neanche a pagare fornitori e operai per completare gli immobili invece già venduti ma ancora da consegnare. Una moltitudine di acquirenti e lavoratori dell’indotto imbufaliti, che si aggiungono ai piccoli e grandi risparmiatori che hanno investito in Evergrande e ora rischiano grosso. Ci sono anche banche europee tra loro, e persino italiane. Cosa che fa sudare freddo per il timore di un devastante rischio contagio. Un effetto domino, insomma, come quello innescato dal fallimento di Lehman. 

Ma c’è’ davvero il pericolo di questo drammatico deja-vù?

No, per due semplici ma più che sufficienti ragioni.

Primo. Lehman fallì perché ad un certo punto si accorse di aver in bilancio carta straccia. I titoli in proprio possesso, collage infiocchettati di titoli spazzatura, non valevano nulla. Evergrande, invece, possiede terreni, case, palazzi, che per quanto svalutati mantengono un reale valore. Fisico, intrinseco. 220 miliardi di dollari, stando alle stime attuali. Roba che si può quindi vendere, liquidare e monetizzare. Per far fronte, almeno, a buona parte dei propri debiti ed evitare, appunto, effetti domino.

Secondo, le autorità politiche e monetarie di Pechino non resteranno a guardare. Anzi, sono già sul pezzo. La Banca Centrale ha subito sparato una grossa cartuccia di liquidità nel sistema finanziario cinese, e società a partecipazione statale hanno già cominciato ad acquisire pezzi del gigante in pericolo. La Cina non vuole trovarsi nuovamente sul banco degli imputati per aver innescato una crisi finanziaria globale, mentre è ancora sotto accusa per lo scoppio della pandemia. In fondo sempre di contagio parliamo. E anche se non ci sono vaccini e lockdown che tengano quando si tratta di crack societari, c’è da giurarci che stavolta Pechino farà di tutto per controllare questo pericoloso "virus".