Così scriveva Nino Andreatta nel 1970 da professore di Economia all’Università di Bologna: «La grande lezione del moderno riformismo dei paesi anglosassoni e scandinavi ha mostrato la possibilità di raggiungere obiettivi “socialisti” con gli strumenti dell’economia di mercato; nel nostro paese si conducono spesso bizantine discussioni sulla natura degli strumenti e non si ha la fantasia di proporsi ambiziosi disegni di riforma che modifichino davvero la realtà sociale».

Un’analisi di cinquant’anni fa in un momento cruciale di assestamento della società dopo le lotte sindacali dell’autunno caldo, la crescita della spesa pubblica, le fiammate dell’inflazione, le crisi politiche ricorrenti. Pochi mesi dopo sarebbe arrivato l’embargo del petrolio dopo la guerra del Kippur e quindi le difficoltà dei rifornimenti e il quadruplicamento dei prezzi. Sarebbe arrivata l’austerità con un inverno contrassegnato dalle domeniche a piedi, dalle insegne pubblicitarie spente, dalle strade con l’illuminazione ridotta e con i programmi televisivi, ancora rigorosamente in bianco e nero, che terminavano alle 23.

Il risveglio dopo i “trenta anni gloriosi”

All’inizio degli anni ’70 si concludevano gli anni che sarebbero stati chiamati “i trenta gloriosi”, gli anni del secondo dopoguerra caratterizzati da una crescita continua ed impetuosa che in Italia fu battezzata “miracolo economico”.

Molti elementi sono stati alla base di quella crescita: la spinta della ricostruzione, il piano Marshall, la progressiva apertura degli scambi con l’avvio del Mercato comune europeo, il boom demografico, i progressi tecnologici con l’esplosione dell’industria delle due ruote (la mitica Vespa) e poi dell’auto (la Cinquecento) per tutti.

L’economia europea nei primi cinquant’anni del secolo scorso si era sviluppata a un tasso dell’1% all’anno; fra il 1950 e il 1973 la crescita aveva toccato il tasso medio del 4,1% annuo per poi scendere all’1,8% nei due decenni successivi. Parallelamente alla crescita la disoccupazione scese a livelli molto bassi. Nel 1960 il numero dei senza lavoro era attorno al 6% della popolazione attiva per poi dimezzarsi nel 1968, al livello degli altri paesi industrializzati.

Anni ’70, uno shock a molte dimensioni

All’inizio degli anni ’70 è cambiato profondamente il corso della storia economica. Il prezzo del petrolio, innanzitutto, ma anche la fine della stabilità monetaria con il tramonto degli accordi di Bretton Woods e il declino americano nelle foreste del Vietnam. Con un’Italia in cui sul fronte economico bisogna ricordare gli effetti del’68 e dell’autunno caldo con la rottura della politica dei bassi salari e sul fronte politico il dramma del terrorismo (l’attentato di Piazza Fontana è del dicembre ’69) e il lento processo dell’apertura a sinistra culminato nel 1978 con l’assassinio di Aldo Moro e con il Governo Andreotti sostenuto dall’esterno anche dal Partito comunista.

L’insieme di questi elementi hanno portato ad una politica economica che si potrebbe benevolmente definire esuberante: la strategia della svalutazione della lira per sostenere la competitività delle esportazioni e una spesa pubblica in continua espansione per finanziare una politica apparentemente keynesiana, ma sostanzialmente assistenziale finalizzata alla ricerca del consenso. Una crescita, quella del deficit pubblico, che è proseguita per decenni con l’unica eccezione dettata dall’emergenza finanziaria, quella della riforma delle pensioni firmata da Elsa Fornero nel Governo di Mario Monti, una riforma peraltro poi progressivamente smontata e svuotata dai contenuti.

Politica economica: le battaglie perse

L’Italia ha progressivamente perso molte battaglie sul fronte della politica economica. Ha rinunciato al nucleare, dove aveva raggiunto un’elevata specializzazione tanto che l’Euratom aveva deciso di collocare a Ispra, sulla sponda lombarda del lago Maggiore, uno dei primi reattori di ricerca. Ha rinunciato allo sviluppo dell’informatica cedendo agli americani della General Electric la divisione di ricerca dell’Olivetti che aveva realizzato il primo personal computer.

Ha rinunciato alla grande chimica di base, diventata terreno di scontro politico, di corruzione e di scorribande imprenditoriali. Ha rinunciato alle grandi imprese pubbliche dove agli imprenditori capaci di visione di lungo termine a favore del benessere collettivo sono subentrati manager selezionati con logiche di cooptazione e fedeltà ai partiti di governo. Ha rinunciato all’industria elettronica con il blocco per dieci anni, fino al 1977, della televisione a colori nonostante che la Rai fosse tecnicamente in grado di trasmettere con i nuovi standard fin dal 1961.

Una crescita “nonostante” la politica

Certo, l’Italia è rimasta la seconda economia industriale d’Europa, ma “nonostante” la politica e grazie a quello che è stato chiamato il quarto capitalismo. Il primo è stato quello delle grandi famiglie industriali: gli Agnelli, i Falck, i Pirelli, i Merloni. Il secondo è stato il capitalismo delle imprese pubbliche, disperse tra crisi settoriali e privatizzazioni parziali. Il terzo capitalismo è ancora vivace: è quello dei distretti, delle piccole e medie imprese specializzate nelle produzioni di qualità, il bello e ben fatto con una buona capacità innovativa sia sul fronte tecnologico, sia in quello del design e della personalizzazione.

Il quarto capitalismo è quello delle multinazionali tascabili: medie imprese che si sono affermate su scala internazionale anche attraverso fusioni e acquisizioni come nel caso di Brembo o di Luxottica.

Sull’energia scelte ideologiche e dispersive

Lo spirito imprenditoriale è riuscito a conquistare spazio all’interno di una politica economica confusa nei mezzi e incerta sui fini. Una politica economica pubblica perennemente alla ricerca del consenso di breve periodo. Lo dimostrano le scelte degli ultimi anni sul fronte energetico dove l’investimento più importante è stato quello del superbonus per l’efficientamento energetico. Una misura improvvisata (non a caso voluta e sostenuta dai 5Stelle) che non esiste in nessun paese al mondo, una misura in cui lo Stato finanzia totalmente interventi edilizi senza limiti di spesa (finora sono stati stanziati 55 miliardi) e senza valutazioni realistiche sulle ricadute a livello di risparmi nei consumi.

È probabile che potranno usufruire del superbonus non più del 2-3% delle abitazioni anche per effetto delle restrizioni e dei controlli introdotti per limitare le truffe. Ci sono tutte le ragioni per credere che alla fine si sarà sostenuta l’edilizia e dato un regalo a pochi proprietari di case, ma il risparmio sul fabbisogno complessivo di energia del Paese non sarà particolarmente significativo (e sarà pagato a caro prezzo).

E intanto si sono posti ostacoli alla realizzazione dei nuovi rigassificatori, si sono bloccati gli investimenti nei parchi eolici, si sono fermati i finanziamenti per le ricerche all’interno di gas e petrolio: tutte scelte che avrebbero potuto diminuire la dipendenza dall’estero, ma che sarebbero servite a poco per sollecitare consensi politici.