Il Medio Oriente è ancora una volta alle prese con i sintomi di nuove tensioni, interne e specifiche di vari Stati ma anche allargate all’intera regione, legate questa volta non al controllo dell’ “oro nero”, di cui continua a essere un produttore sovrabbondante, ma a quello dell’ “oro blu”, la cui crescente carenza fa sentire sempre più pesantemente i suoi effetti nefasti.

La persistenza di un lunghissimo periodo di siccità (secondo Ben Cook, climatologo del Goddard Institute for Space Studies della Nasa, si tratta della peggiore degli ultimi 900 anni) ha accentuato negli ultimi mesi la mancanza di risorse idriche, condizionando negativamente sia le prospettive economico-sociali, sia i precari equilibri politico-strategici regionali. Tanto che, a partire dall’estate, diffuse proteste popolari hanno interessato le strade di Iran, Iraq, Siria e Libano. Il vero, grande pericolo che fa tremare le cancellerie della regione (ma anche quelle delle maggiori potenze mondiali) è tuttavia il rischio crescente che l’ostilità di Egitto e Sudan all’ultimazione di un’enorme diga denominata Gerd (acronimo di Grand Ethiopian Renaissance Dam) - che in Etiopia sta per sbarrare il Nilo Azzurro, condannando i due Paesi a valle a una fortissima penuria idrica per i mancati apporti delle acque del Corno d’Africa al Nilo - si trasformi in una vera e propria “guerra mondiale” africana.

Troppe bocche da dissetare

Il maggior problema politico-ambientale del Medio-Oriente appare l’impossibilità di reperire nuove risorse idriche per soddisfare la domanda di una popolazione che continua a crescere in modo pressoché incontrollato. L’incremento demografico nella regione mediorientale, che attualmente è all’1,7 per cento annuo (benché in leggero calo tendenziale), resta infatti tra i più elevati al mondo: la media planetaria odierna si aggira sull’1,1 per cento.

Risorse idriche sempre più carenti

Secondo l’istituto israeliano di ricerca Moshe Dayan Center di Tel Aviv, i dieci Paesi della regione (Nord Africa escluso), che oggi hanno una popolazione di circa 500 milioni di abitanti , nel 2030 ne conteranno 581 milioni, che saliranno a 724 milioni vent’anni dopo. La disponibilità idrica procapite che ne consegue - poco più di 500 metri cubi annui - è già oggi largamente insufficiente al fabbisogno minimo, considerato che i parametri dell’Onu definiscono il livello di 1.000 metri cubi come “scarsità d’acqua relativa” e di 500 metri cubi come “scarsità d’acqua assoluta”.

Il trend appare inesorabile, se si pensa che negli anni ’50 la disponibilità era di 4.000 metri cubi, poi crollata a 820 metri cubi nel 2011.

Detto in estrema sintesi e in altri termini: il 6% della popolazione mondiale che vive nella regione oggi dispone di appena l’1% delle risorse idriche planetarie. E mentre la quantità totale di acqua utilizzabile in futuro resterà sostanzialmente fissa, la popolazione aumenterà del 45 per cento nel prossimo trentennio. Ciò significa che, entro la metà del secolo, centinaia di milioni di persone si troveranno a contendersi risorse molto rarefatte, con un livello di pericolosità geo-politica sicuramente senza pari al mondo.

Tensioni diffuse

Di fronte a questa situazione, è logico che ogni minima carenza, anche momentanea, dovuta a una riduzione delle precipitazioni sia in grado si scatenare tensioni politico-sociali molto pericolose per i vari regimi mediorientali. È quanto è accaduto quest’estate in diversi paesi della regione.
Vediamo in sintesi le situazioni più gravi. In Libano il malcontento si è saldato alla situazione di sfaldamento istituzionale  ed economico in cui il paese si trascina da tempo, ma in strada la gente ha chiesto con forza di porre rimedio soprattutto a una situazione in cui la mancanza di combustibili e di materiali per il trattamento della acque ha ridotto a ritmi insostenibili l’erogazione degli acquedotti pubblici. La somma necessaria al loro funzionamento minimamente regolare, afferma il noto quotidiano qatariota Al Jazeera, è di appena 40 milioni di dollari l’anno, che però non si riescono a reperire nelle pieghe del bilancio. Il risultato è la sete per 4 milioni di libanesi su una popolazione residente di circa 6,5 milioni (oltre il 60 per cento del totale), profughi palestinesi e siriani compresi. Oppure il ricorso alle scarse risorse idriche in mano privata, con costi fino al 200 per cento superiori alle tariffe statali, che solo una piccola minoranza di privilegiati può permettersi. Un po’ di sollievo potrebbe giungere da un carico di petrolio inviato dall’Iran in questi giorni, sempre che Washington ne permetta lo sbarco.

L'ombra di Erdogan

Situazione analoga in Siria e Iraq. Qui gli effetti della siccità sono accentuati dal controllo esercitato dalla Turchia sul flusso delle acque di Tigri ed Eufrate, le cui sorgenti si trovano sull’altopiano anatolico, che costituiscono pressoché l’unica fonte idrica dei due paesi. Da esse dipende la sorte di gran parte dei 14 milioni (profughi all’estero esclusi) e 38 milioni di abitanti che le due nazioni vantano rispettivamente. Ankara ha infatti quasi ultimato il Great Anatolian Project, un colossale programma che prevede lo sfruttamento integrale dei  bacini imbriferi dei due fiumi mediante 22 grandi dighe (e circa 600 minori) a spese dei paesi a valle (situazione che ricalca quella tra l’Etiopia da un lato e Sudan ed Egitto dall’altro).
Secondo il quotidiano indiano The Economic Times, ben 5 milioni di siriani e 7 milioni di iracheni sono afflitti quest’anno dalla siccità. In Siria due bacini idrici che soddisfacevano le necessità di tre milioni di abitanti sono stati chiusi e oltre 400 chilometri quadrati di terreno agricolo sono pressoché perduti alla coltivazione. In Iraq è la regione di Bassora la più colpita dall’erogazione a singhiozzo dell’energia elettrica (in buona misura importata dall’Iran, anche se gli Stati Uniti sono fortemente contrari a causa delle stringenti sanzioni economiche applicate a Teheran), che determina lunghe interruzioni nel pompaggio dell’acqua per usi civili e irrigui. Ma anche nel Kurdistan (più montagnoso e dotato di risorse idriche), quest’estate si è giunti al razionamento dell’erogazione dell’acqua per l’abbassamento costante delle falde freatiche.

Il gigante sciita assetato

La Giordania, all’inizio di luglio, è stata costretta a chiedere al nuovo governo israeliano Bennet- Lapid (dopo il prolungato rifiuto di Benjamin Netanyahu) la fornitura di 50 milioni di metri cubi di risorse aggiuntive, rispetto alle quote previste dall’accordo in vigore dal 1994, provenienti da un impianto di desalinizzazione posto nel nord del paese, da cui l’acqua defluisce nel Mar di Galilea e da lì in Giordania, in attesa che i due grandi dissalatori promessi tre anni or sono dall’Arabia Saudita e dal Consiglio di Cooperazione del Golfo siano realizzati presso Aqaba.

La situazione politicamente più delicata, forse, è però quella dell’Iran. Alcune provincie del gigante sciita sono infatti soggette a ricorrenti, forti crisi idriche. Quest’anno è toccato al Khuzestan, provincia cruciale perché è la maggiore produttrice di petrolio del paese (80 per cento del totale estratto) e perché abitata in maggioranza da arabi sunniti con tentazioni secessioniste. Un semestre di dura siccità, in una regione che è anche la più calda del paese (i 50 gradi sono stati raggiunti più volte in questi mesi), ha portato in luglio a duri scontri di piazza durati alcune settimane e solo la massiccia repressione del regime, che probabilmente ha causato alcune vittime, unita a un parziale “mea culpa” della Guida Suprema della Rivoluzione, l’ayatollah Alì Khamenei, sulla fondatezza delle proteste ha stroncato la rivolta, con la quale si chiedeva, tra l’altro, una più equa distribuzione delle risorse idriche regionali, finora in buona parte dirottate altrove.

Guerra in vista?

Come si è già accennato, è però in Etiopia che si gioca il futuro idrico (ma anche geopolitico) dell’intera Africa orientale. La “Grande diga del rinascimento etiopico” (questo il pomposo nome attribuito allo sbarramento che creerà un lago artificiale di 1.874 chilometri quadrati, contenente 74 chilometri cubi di acque che, a pieno regime, alimenteranno la più grande centrale idroelettrica africana, la settima al mondo), ha però il difetto, agli occhi di Egitto e Sudan, d’intercettare buona parte delle acque che alimentano il Nilo.

Se poi il periodo di riempimento dell’invaso, iniziato in luglio, fosse ridotto da 15 a 5 anni (come inizialmente desiderato da Addis Abeba), ai cento milioni di egiziani, che crescono al ritmo insostenibile dell’1,94 per cento annuo, per molto tempo non resterebbe che un rigagnolo per soddisfare le loro necessità idriche, già oggi prossime al limite degli insostenibili 500 metri cubi annui.

Questo pericolo ha portato l’Egitto a minacciare più volte, fin dai tempi del presidente Hosni Mubarak, un attacco aereo mirato al cantiere dell’invaso. E da luglio, quando sono state avviate le operazioni iniziali di riempimento, ogni momento e pretesto sono buoni perché il Cairo scateni la sua aviazione e/o le sue unità speciali di terra, con l’aiuto indispensabile del Sudan, il cui confine con l’Etiopia è posto a pochi chilometri dalla diga. Questo ipotetico attacco, per quanto potente, non sarebbe mai in grado di fermare del tutto i lavori - che al più potrebbero subire un ritardo, ma non certo un arresto - ed è per questo, probabilmente, che l’Egitto, su pressione americana, si è finora astenuto dal colpire.

Nervi a fior di pelle

Tuttavia, se le esigenze minime vitali del Cairo (tempi e quantità dell’invaso) saranno ignorate da Addis Abeba, è possibile che un’azione dimostrativa possa avere luogo. Con effetti geopolitici ben più devastanti e prolungati di quelli militari. Il contenzioso trova infatti schierati i Paesi arabi e musulmani, come spesso accade, su fronti opposti. Turchia e Qatar, antagonisti dell’Egitto da decenni, appoggiano l’Etiopia, che gode pure del sostegno politico di Russia, Cina e, sommessamente, anche dell’Italia, dato che i lavori della diga sono stati assegnati a Salini-Impregilo, dallo scorso anno rinominata “Webild”. Mentre il resto dei paesi mediorientali sostiene, in modo più o meno convinto, l’Egitto.