La diffusione dello smart working nell’economia italiana ha seguito un ciclo di rapida espansione durante il primo periodo post-pandemico, per tutto il 2020 e il 2021, mentre nel 2022 sembra che la dinamica di crescita si sia fortemente ridotta, mostrando stabilità se non un leggero regresso del numero dei lavoratori in remoto.
I dati del Politecnico di Milano stimano che nel 2022 3,6 milioni di lavoratori siano stati coinvolti nel lavoro da remoto, quasi 500 mila in meno rispetto al 2021, un calo avvenuto soprattutto nella pubblica amministrazione e nelle piccole imprese, mentre si rileva un aumento nelle grandi aziende che, ricordiamolo, raccolgono circa la metà dei lavoratori smart italiani.
Vecchia idea o innovazione?
È probabile che la riduzione dello smart working nelle piccole imprese sia determinata dalla “vecchia” idea che lo smart working sia essenzialmente una misura emergenziale, che si contrappone alla moderna teoria dell’organizzazione che lo identifica invece in una vera e propria innovazione organizzativa, foriera di un cambiamento strutturale della nostra società, con effetti positivi sui lavoratori, sulle imprese/istituzioni e sull’intera società, ma con alcuni problemi di implementazione.
I margini innovativi di sviluppo
Il potenziale di diffusione dello smart working nell’economia italiana è molto alto, ma soltanto nella teoria economica. Nella pratica monitorata dai vari centri di ricerca che seguono l’argomento è ancora un fenomeno con ampie possibilità di crescita. Se il tasso di diffusione reale raggiungesse quello potenziale, i vantaggi di questa innovazione organizzativa sarebbero ancora più evidenti a livello aggregato, sia in termini di minore inquinamento, sia di maggiore produttività totale dei fattori.
È possibile individuare le variabili che fanno funzionare al meglio lo smart working?
È possibile cercare di capire quale potrebbe essere il miglior comportamento delle imprese, della pubblica amministrazione, dei lavoratori per ottenere un pieno successo nell’uso dello smart working?
Un recente lavoro che ho condotto con Francesca Rota, Lisa Sella e Greta Falavigna, del CNR-IRCrES e dell’Università di Torino, ha cercato di rispondere a parte di questi dubbi, concentrandosi sulle condizioni abilitanti che favoriscono l’efficacia dello smart working. Efficacia intesa in senso ampio, con risultati positivi per i lavoratori, per l'istituzione che lo organizza e per la società.
Le condizioni e i settori
L’ipotesi di fondo è che la buona riuscita dello smart working derivi soprattutto dalle caratteristiche dell'impresa/istituzione, del lavoratore e del contesto familiare. In aggiunta, anche l’esperienza avuta durante la fase emergenziale avrebbe lasciato un’influenza psicologica sull’accettazione della “normalità” del lavoro ibrido. Sono variabili rilevate a livello di singola persona, su tremila questionari raccolti fra i ricercatori del CNR e dell’INAF, due dei maggiori Enti Pubblici di Ricerca.
Nonostante la specificità del lavoro intellettuale e creativo, molti risultati dello studio sono facilmente estendibili al resto dell’economia, soprattutto nei settori del terziario e delle grandi imprese.
Tecnologia e competenze digitali
La letteratura economica discussa nello studio indica che le variabili più importanti che incidono sull’efficacia della nuova organizzazione sono la tecnologia e le competenze digitali, a cui si aggiungono le variabili che descrivono il contesto familiare e quello lavorativo. Tutte variabili che dipendono proprio dalle caratteristiche dei singoli e che influenzano la percezione che il lavoratore ha dell’efficacia dello smart working, intesa come modalità di lavoro che consente di svolgere a casa tutte le mansioni che si svolgono generalmente in ufficio.
Quando la percezione del lavoratore è positiva si ha un caso di successo e di buona efficacia del lavoro da remoto. Al contrario, quando il lavoratore afferma che non riesce a completare tutto il suo dovere professionale, allora lo smart working non funziona in pieno, e possiamo individuarne alcune cause.
Il modello econometrico
Le tremila risposte ottenute dal questionario sono state elaborate con un modello econometrico che ci permette di rilevare la significatività statistica dei legami tra caratteristiche del lavoratore, ente, ambiente domestico e organizzazione, da una parte, e percezione della buona riuscita del lavoro da remoto, dall’altra. Il modello ha tenuto conto che gran parte degli intervistati lavorano in laboratori e in grandi infrastrutture tecnologiche, che necessitano della presenza fisica per condurre gli esperimenti.
Per esempio, tra le caratteristiche del lavoratore sono risultate significative l’età, il genere e le competenze digitali.
La variabile generazionale
La parte del campione con più di 54 anni di età sembra meno convinta dell’efficacia del lavoro da remoto, probabilmente per un atteggiamento di minore empatia verso le tecnologie digitali. Anche chi dichiara un deficit formativo nella gestione degli strumenti digitali percepisce una minore facilità nel raggiungere le stesse performance del lavoro in presenza.
Le ricercatrici sono la metà del campione e mostrano anch’esse una difficoltà maggiore nella gestione del lavoro da remoto. Probabilmente, per il peso delle varie incombenze casalinghe che la tradizionale cultura italiana delega ancora alla componente femminile e che favoriscono una frammentazione dell’attività lavorativa, disturbando il lavoro intellettuale e creativo.
Il tempo e i pendolari
Un’altra variabile significativa che il modello econometrico ha rilevato è quella del tempo di percorrenza dei pendolari, che incide positivamente sull’efficacia percepita dal lavoratore. Probabilmente, chi abita a due o tre ore di distanza (andata e ritorno) dall’ufficio utilizza le ore risparmiate come un “tesoretto di vita” dedicato al benessere personale e all'impegno familiare, ma anche a favore del lavoro.
Altre ricerche hanno evidenziato come in questi casi si lavora un po’ di più del dovuto, magari mezz’ora delle due ore risparmiate. Comunque, anche se non aumenta il tempo dedicato al lavoro, sicuramente si lavora meglio, senza la stanchezza e lo stress del pendolarismo. Per tali motivi, per chi abita lontano il modello ha rilevato maggiori probabilità di raggiungere gli obiettivi professionali anche con lo smart working.
Gli spunti per i policy maker
Lo studio consente poi di formulare alcuni suggerimenti ai policy maker e alle imprese che vogliono governare meglio questa innovazione organizzativa.
Le “istruzioni per l’uso”, da una parte, indicano che occorre ben calibrare le variabili interne all’organizzazione, quali la valutazione per obiettivi, l’autonomia nelle prestazioni, la formazione, la disponibilità delle tecnologie digitali; dall’altra, sottolineano il ruolo delle variabili sociali, esterne all’impresa e all’istituzione.
Per esempio, nel caso delle ricercatrici occorre comunque sottolineare l’importanza di asili nido e di scuole con orario prolungato, per non ridurre la produttività delle mamme lavoratrici, sia nel tradizionale lavoro in ufficio, che in quello da remoto.
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