«La storia degli ebrei danesi é una storia sui generis, e il comportamento della popolazione e del governo danese durante la Seconda Guerra mondiale non trova riscontro in alcun altro paese d'Europa, occupato o alleato dell'Asse o neutrale e indipendente che fosse. Quando i tedeschi, con una certa cautela, li invitarono a introdurre il distintivo giallo, essi risposero che il re sarebbe stato il primo a portarlo, e i ministri danesi fecero presente che qualsiasi provvedimento antisemita avrebbe provocato le loro immediate dimissioni».
Così scriveva Hannah Arendt, nel suo resoconto del processo Eichmann, a Gerusalemme, a proposito della resistenza danese alla deportazione di massa degli ebrei rifugiatisi in Danimarca: indossare la stella gialla, senza essere ebrei, significava esibire il fatto che gli ebrei facevano parte di un mondo ‘comune’ e ribadire, con una pubblica azione, l'esistenza di garanzie giuridiche per tutti. Non erano in gioco sentimenti, né competenze di tipo affettivo, come sottolinea l’autrice, bensì principi, ragioni, ed esperienze cognitive.
La percezione dell'ingiustizia
Nemmeno coloro che solidarizzarono, in anni più recenti, con la lotta dei sudafricani di colore contro l’apartheid si trovavano in qualche forma di rapporto comunitario concreto con essi: la percezione dell’ingiustizia dell’apartheid era per loro una ragione sufficiente per impegnarsi. L'esempio danese e l’esempio sudafricano mostrano che questioni e dilemmi di giustizia e ingiustizia non riguardano, o perlomeno, non riguardano soltanto, il mondo comune, ma si trovano piuttosto al confine tra mondo comune ed i nostri mondi privati.
Ciò che qui propongo è una riflessione sull’idea di solidarietà, attraverso un esame degli orientamenti, dei vocabolari e delle disposizioni che caratterizzano una prospettiva teorico-politica in merito a questo concetto. Vorrei dimostrare che il confine che l’idea di solidarietà permette di consolidare e rendere significativo è molto diverso da un confine politico, geopolitico, economico, perché si definisce non secondo i ‘beni’ – economici, politici - cui i soggetti possono aspirare, ma sulla base dei ‘mali’ – quasi sempre politici - che devono temere, e dai quali un confine, ad esempio tra governi legittimi e illegittimi, tra usi e abusi di potere, è chiamato a tutelare.
La solidarietà al confine
Un confine, per definizione, mantiene in comunicazione reciproca ambiti che restano tuttavia separati nella loro specifica determinazione: il confine definisce, in sostanza, per i differenti individui, diverse identità, a seconda di dove costoro si trovino ad interagire in un determinato momento. In questo senso si può dire che, se trasgredisco un confine, o lo oltrepasso senza indicare e dichiarare le mie intenzioni, la mia identità è in pericolo, o diventa pericolosa.
Il confine, nel suo senso originario, è un luogo dove due identità nello spazio si attestano, si confrontano e si difendono, comunicando.
Serve a ribadire differenze, e segnare un confine equivale sempre, in prima battuta, a prendere le distanze, da qualcosa o da qualcuno. Il che non significa svalutare qualcosa, né qualcuno; semplicemente, si esprime con un confine l’esigenza di non confondere ambiti che sono, e devono restare, diversi.
Un confine implica dunque, innanzitutto, un limite, e il limite è ciò che dà senso, significato alle cose. Per conoscere occorre tracciare dei limiti, per distinguere occorre delimitare, quindi far uso di confini: un confine, inteso come limite, definisce identità diverse per individui differenti. Un confine serve, in sostanza, nella teoria politica e nella pratica politica moderne, a ribadire differenze, ponendosi come elemento artificiale da cui partire ed a cui fare riferimento, una linea certa e stabile, almeno fino a quando non si modificano profondamente le condizioni che l’hanno determinata. Mai come ora, tuttavia, i confini, tra governi legittimi e illegittimi, tra uso e abuso del potere, tra trattamenti accettabili e inaccettabili di persone da parte delle istituzioni, sono apparsi vulnerabili.
Il problema della misura
Tornare sui confini si rivela dunque cruciale perchè, in definitiva, significa porre un problema di misura, in senso descrittivo e valutativo, cioè nel senso di un giudizio e di giustizia. I confini intesi come senso del limite, come una delle possibili ‘barriere’ che identificano la differenza tra tollerabile e intollerabile (nelle relazioni tra stati, tra governanti e governati, tra cittadini e non) dovrebbero tornare a essere, oggi, un luogo privilegiato di riflessione: una riflessione che ha, tra i suoi scopi principali, verificare da che cosa tali confini proteggano, e se continuino a proteggere adeguatamente.
Decidere di prendere le mosse dai confini – siano essi fisici o ideali -, per sperimentare una definizione credibile e giustificabile di solidarietà, significa allora, in primo luogo, assumere il compito fondamentale e originario di tracciare confini. Il primo ostacolo che si incontra, lungo questa direzione, è: come si traccia un confine? È più opportuno tracciare un confine netto oppure sfumato? E soprattutto, che cosa, o chi, dividerà tale confine? Il confine è negoziabile? A quanti chilometri da un vecchio confine, come sta mostrando il caso ucraino, si può iniziare a parlare di invasione?
L’invito a riflettere sulla solidarietà si configura in tale direzione precisamente come un modo di ragionare (oltre che di agire) sull’inaccettabilità della cancellazione di limiti e della violazione di confini. La percezione di un’ingiustizia - come dimostrano gli esempi in apertura, e quelli drammaticamente legati alla contingenza bellica europea – può essere una ragione sufficiente per impegnarsi, perlomeno, in un esercizio di pensiero: il concetto di solidarietà sembra essere così legato, in prima istanza, all’aiuto - materiale o simbolico – nei confronti di coloro che lottano per i propri diritti, che lottano sui loro confini e per i loro confini.
La solidarietà implicherà, in questo senso, sempre una parzialità sorretta da sentimenti di unione o di simpatia.
In ciò potrebbe risiedere, per un verso, la forza di questo concetto, in quanto fonte di identità e motivo di agire morale; per un altro verso, tuttavia, sembra sussistere – lungo il corso della storia - un conflitto piuttosto acuto tra vincoli solidali e pretese individuali di giustizia e di uguaglianza. La solidarietà, nel suo tono minore, può sempre anche trasformarsi – Robespierre docet – in intolleranza, e in oppressione. Quando e con chi, dunque, essere solidali?
I due volti della solidarietà
Esiste, a livello generale, una forma di solidarietà che deriva "dal basso" – tipica espressione, per esempio, delle associazioni sindacali – e una solidarietà che proviene "dall’alto", attestata dai differenti (e spesso divergenti) modelli di protezione (dalla protezione garantita agli stati dal diritto internazionale alla protezione più "locale", legata alle forme di previdenza sociale).
Esiste, in altri termini, una versione di solidarietà intesa come debito (sociale) nei confronti di chi ci precede, e che ci vincola a restituire qualcosa in cambio al mondo; oppure una versione di solidarietà come obbligo, nella misura in cui rinsalda un senso di responsabilità nei confronti di coloro che verranno dopo di noi, o che sono diversi da noi, o che si trovano in una condizione peggiore della nostra, e ci rende consapevoli degli esiti sugli altri di ogni (nostra) azione individuale. Esistono dunque differenti ‘livelli’ di solidarietà:[1] solidarietà giuridica, solidarietà per amore del prossimo, solidarietà fondata su una fede comune, solidarietà storica in relazione alle generazioni future, solidarietà internazionale, e via dicendo.
A qualsiasi livello essa si eserciti, comunque, la solidarietà partecipa non della pietà ma della ragione, e quindi della capacità di generalizzazione.
E chi la esercita è in grado di comprendere concettualmente una moltitudine, non solo la moltitudine di una classe o di una nazione o di un popolo o di una classe, ma proprio tutta l’umanità: «È per pietà che gli uomini sono attratti verso les hommes faibles, ma è per solidarietà che stabiliscono deliberatamente una comunità di interessi con gli oppressi e gli sfruttati: tale solidarietà, anche se può essere suscitata dalla sofferenza, non ne è tuttavia guidata, e comprende i forti e i ricchi non meno dei deboli e dei poveri… la pietà, a differenza della solidarietà, non guarda con occhio eguale la fortuna e la sfortuna, i forti e i deboli: senza la presenza della sfortuna la pietà non potrebbe esistere… la solidarietà è un principio che può ispirare e guidare l’azione, la compassione è una delle passioni, e la pietà è un sentimento… la pietà, vista come fonte di virtù, ha talvolta dimostrato di possedere un potenziale di crudeltà maggiore della crudeltà stessa» (Arendt, 1963).
«Par pitié, par amour pour l’humanité, soyez inhumains», come si arrivò a sostenere in una delle petizioni presentate da una delle sezioni della Comune di Parigi alla Convenzione Nazionale, nel 1871.
La solidarietà rivela dunque due volti: un volto naturale, spontaneo, empatico, fatale per alcuni e benefico per altri, e un volto più consapevole, cosciente, esito di volontà, organizzato e destinato a modificare gli esiti ingiusti della solidarietà naturale. Il duplice significato del termine – solidarietà come ideale e solidarietà come fatto – è sicuramente l’elemento operativamente di maggior successo di questa nozione, capace di conciliare l’esigenza di oggettività con un ideale di giustizia.
La funzione economica
La solidarietà diventa così, come scrive l’economista Kenneth Arrow ne I limiti dell’organizzazione, un bene che ha una funzione economica rilevante, pur senza avere un prezzo corrispondente: «La fiducia e simili valori, la lealtà e la sincerità, sono esempi di ciò che gli economisti chiamerebbero "esternalità". Sono beni, sono merci; hanno un valore reale, pratico, economico; aumentano l’efficienza del sistema, vi rendono possibile produrre più merci e più di qualunque valore che sia altamente apprezzato. Ma non sono merci per le quali lo scambio sul mercato aperto sia tecnicamente possibile, o anche significativo»[2].
La solidarietà, in altre parole, ha caratteristicamente un respiro universale perché identifica, in sostanza, non tanto degli obiettivi, ma delle "condizioni": di giustizia, rispetto, responsabilità, equo trattamento. L’ambiguità costitutiva del termine diventa così, paradossalmente, un carattere utile per comprendere la ricorrenza del fenomeno, ma anche per fondarne il concetto. Carattere necessario, aggiungo, ma non sufficiente. Perché per capire la solidarietà, bisogna capire cosa la solidarietà è, ma anche, e forse soprattutto, cosa la solidarietà fa.
La questione di giustizia
Il diritto romano definisce la solidarietà come una specifica forma di obbligazione, secondo la quale ogni membro di una comunità deve farsi carico della totalità dei debiti sussistenti, e viceversa la comunità deve farsi carico di quelli di ogni singolo membro. Se alla fine del diciassettesimo secolo il termine passò dal definire una figura giuridica all’identificare un contesto di obblighi – reciproci, tra individuo e società - nella sfera morale, sociale, politica, e ad assumere rilevanza metodologica nelle nuove discipline sociali, possiamo ricondurre nella contemporaneità l’idea di solidarietà nell’ambito di un semplice principio: il fatto stesso di vivere in società implica l’accettazione di un debito nei confronti di tutti i membri di quest’ultima.
Il valore aggiunto offerto da una solidarietà così intesa risiede nell’idea che la libertà di un individuo passi attraverso il riconoscimento dei suoi legami necessari con gli altri soggetti della comunità. L’individuo, lungi dal perdere la sua libertà nella solidarietà, riuscirà al contrario ad acquisire - attraverso il suo esercizio - la consapevolezza della sua responsabilità in quanto cittadino o cittadina.
Il rapporto di equivalenza
Quando entra in gioco la solidarietà, non si tratta più di stabilire una relazione di uguaglianza tra gli individui, ma di ristabilire un rapporto di equivalenza che permetta loro di considerarsi come veri e propri associati di un’impresa cooperativa comune. L’essere sociale non sarà allora solo chi è capace di associarsi con altri, e in grado di rispettare le regole dell’associazione, ma colui o colei in grado di comprendere che una parte della sua persona ha un’origine sociale e, di conseguenza, deve essere consacrata ad uno sforzo comune: per questa ragione la solidarietà non è pensabile indipendentemente da un’idea di contratto, da un’idea di diritto, da un’idea di dovere. Non può, in altri termini, sottrarsi al ragionevole sforzo di stabilire regole per le relazioni tra esseri umani.
Ma con chi bisogna essere solidali? E perché lo si dovrebbe essere? Se la solidarietà può diventare anche un fattore di esclusione (quando, ad esempio, confonda l’assimilazione sociale con l’uguaglianza politica dei diritti, come il caso giacobino dimostra), il richiamo solidarista alla giustizia si pone come richiamo non ad una giustizia solo distributiva, ma una giustizia che riconosca il “diritto di avere diritti”, di essere cioè ammessi nello spazio pubblico, e di rimanervi come esseri agenti. Il programma della solidarietà esige organizzazione, composizione di forze, individuali e collettive, secondo un punto di vista universalistico. Ma lottare contro un male pubblico cosa esige? La socializzazione degli sforzi richiederà infine forse una statalizzazione delle esistenze e delle individualità?
Se manca un assoluto: la solidarietà come ponte
La solidarietà, a questo punto del ragionamento, non potrà limitarsi ad essere un metodo per tracciare un confine politico o geo-politico, un mezzo di inclusione ed esclusione, ma dovrà anche istituirsi come un ponte, una garanzia di in-between, di uguaglianza politica e di partecipazione. Costruire ponti non è, del resto, l'esatto contrario del tracciare confini, e forse l'esigenza rappresentata dai ponti non é poi così differente da quella rappresentata nei confini, in quanto raccordare non significa necessariament annullare la distanza.
L'apparente paradosso dei ponti, l'unione che preserva la distanza, è l'apparente paradosso di uno spazio pubblico in cui la comunanza preserva sempre una misura di separatezza.
Eppure una differenza esiste: i ponti, al contrario dei più rigidi confini, si possono percorrere. Essi coprono un vuoto, ne rilevano i passi: scavalcando il fiume, scombinano il limite geografico. Qualcosa vi scorre sotto, e, di là da essi, si delineano i confini. Il ponte, in quanto artificio deputato a rappresentare un dualismo, può porsi come struttura concreta di collegamento tra due rive, o comunque come elemento che rompe un isolamento ad esso precedente: in questo caso, il ponte è un operatore di trasformazioni, costrutto tangibile di una volontà di connessione, oltre che naturalmente infrastruttura territoriale. Il ponte – anche il ponte della solidarietà - è infine, nell’opinione di chi scrive, la miglior metafora 'fisica' di uno spazio pubblico.
La speranza dei ponti
La caratteristica più tipica dei ponti è la capacità di creare qualcosa che "prima" non c'era, una capacità non automaticamente insita in loro, ma prodotta dalla libera volontà di coloro che li costruiscono. Ecco in che senso i Romani costruivano i loro ponti, tutti i loro ponti, perché durassero in eterno, ed ecco perché il pontifex, al di là dall'essere una specifica istituzione sacerdotale, si configurava come colui che aveva il potere di fissare e di estendere un’identità pubblica di civiltà.
Potremmo allora cominciare a pensare alla solidarietà come a un ponte tra libertà e giustizia: costruire ponti, allora, sarà come tracciare confini, un modo per garantire libertà, offrendo inclusione ma permettendo il giusto grado di separazione: zone "franche", a nostra disposizione per tradurre il valore dei differenti punti di vista sul mondo.
La speranza è che, come nell'esempio danese, tutti si batteranno sotto e sopra le loro insegne, proprio perché non vi si riconosceranno.
Note:
[1] Sulla difficoltà di tracciarne i confini e la necessità di definire e distinguere il concetto a diversi livelli di analisi si veda quanto scrive Gian Primo Cella: “Ad un primo livello, quello societario, tipico dei classici della teoria sociale (da Tönnies a Durkheim) essa rappresenta la fondamentale fonte del consenso nei sistemi sociali. Al livello analitico dei sistemi di azione essa rappresenta, almeno come sistema puro, un ambito alternativo a quello degli interessi. A un terzo livello, strettamente collegato con il secondo, la solidarietà può essere in modo più specifico colta come valore o come criterio di organizzazione e di riferimento per l’azione”. Cfr. G. P. Cella, Definire la solidarietà, in “Parolechiave”, 1993, n. 1.
[2] Kenneth Arrow, I limiti dell’organizzazione, Milano, Il Saggiatore, 1986, p. 126.
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