Nelle due settimane precedenti la COP27 (il vertice sulla crisi climatica organizzato dalle Nazioni Unite che si terrà dal 6 al 18 novembre a Sharm El-Sheikh) gli scienziati sono tornati a farsi sentire con la speranza che il summit porti a decisioni in grado di scongiurare conseguenze catastrofiche inimmaginabili (letteralmente, poiché la Terra non è mai stata così calda da quando l’uomo la abita) del surriscaldamento del pianeta.
L’Emissions Gap Report dell’Unep (il programma ambientale delle Nazioni Unite) rievoca nel titolo “The Closing Window” il pochissimo tempo rimasto per limitare l’aumento globale della temperatura, mentre gli autori di State of Climate Action guidati dal World Resources Institute insistono sull’urgenza di una trasformazione economica e sociale su larga scala, rapida e sistemica.
Non ci siamo con i tempi
Gli studiosi si trovano perfettamente allineati nel ribadire la lentezza con cui gli interventi a favore della mitigazione del cambiamento climatico siano avvenuti finora. Il bilancio fornito dal rapporto State of Climate Action mostra che 27 dei 40 indicatori rappresentativi delle azioni atte a osservare gli impegni presi con l’Accordo di Parigi si stanno muovendo nella giusta direzione ma a una velocità insufficiente per il raggiungimento degli obiettivi al 2030. Nella seguente figura gli indicatori con le migliori performance.
Il “gap” su cui si focalizza il report delle Nazioni Unite è quello tra il taglio di CO2 promesso dai singoli paesi e quello che sarebbe necessario per limitare il riscaldamento globale a 1.5°C, target concordato a livello internazionale. Oltre a essere state inadeguate le azioni svolte finora, appaiono inadeguati anche i Nationally Determined Contributions (Ndc, “Contributi Nazionali Determinati”), cioè gli obiettivi climatici che le nazioni si sono date con la ratifica dell’Accordo di Parigi.
Negli otto anni che ci separano al 2030 le emissioni dovrebbero essere ridotte dal 30 al 45% per mantenere la crescita della temperatura globale entro i 2.0°C e 1.5°C rispettivamente, mentre gli impegni presi con gli Ndcs, nell’ipotesi in cui vengano pienamente rispettati, ridurranno le emissioni tra il 5 e il 10%. Esprimendo il deficit di ambizione e implementazione delle attuali politiche sul clima in termini di aumento di temperatura, si può dire che questa crescerà di circa 2.8°C (intervallo di 1.9–3.3°C) nel corso del 21esimo secolo.
Come se non bastasse, le attuali politiche non mettono i paesi sulla buona strada neanche per rispettare i loro Ndcs. La seconda figura mostra l’accelerazione necessaria della riduzione di emissioni di gas climalteranti dopo il 2030 per limitare il riscaldamento terrestre a 2.0°C se si assume di arrivare a tale anno con gli Ndcs annunciati prima della COP26.
I danni del cambiamento climatico
«Ogni frazione di grado conta», ha detto Inger Andersen, direttore generale dell’Unep. «Questo report ci dice con freddi termini scientifici quello che la natura ci sta dicendo da tutto l’anno con temporali, alluvioni mortali e incendi furiosi», ha insistito. Un’analisi diffusa da The Guardian quest’estate ha citato le catastrofi naturali che hanno causato vittime, enormi danni economici e hanno peggiorato le condizioni di vita di milioni di persone in tutto il mondo sottolineando come fossero legate all’aumento medio della temperatura terrestre di appena 1°C. Il 71% dei trends ed eventi estremi studiati sono stati resi più gravi o più probabili dalla destabilizzazione climatica riconducibile all’attività umana.
I gas a effetto serra immessi nell'atmosfera intrappolano una maggior quantità di calore, l'aria più calda trattiene più vapore acqueo che si riversa al suolo attraverso acquazzoni più intensi e provoca un maggior rischio di inondazioni; gli oceani più caldi, poiché assorbono gran parte del calore del pianeta, alimentano uragani più violenti e distruttivi.
Rimanendo in Italia: quest’estate siccità, nubifragi e bombe d'acqua hanno fatto crollare la produzione agricola nazionale e introdotto nuovi problemi a lungo termine come la diffusione di parassiti e la salinizzazione dei terreni agricoli e delle riserve idriche; l’aridità dei terreni e le alte temperature hanno favorito il propagarsi di incendi su migliaia di ettari di boschi e campi; e il caldo record fuori stagione con precipitazioni brevi ed intense ha affermato la tendenza alla tropicalizzazione del clima della nostra penisola.
Il cambiamento climatico lo stiamo vivendo, non è il futuro, e la transizione verde deve essere la rivoluzione industriale del nostro tempo.
I fragili Paesi in via di sviluppo
Con l’invasione russa in Ucraina quest’anno la Conferenza delle parti andrà in scena in un momento di tensione geopolitica e crisi energetica. Essendo proprio l’Africa il continente che ospiterà l’evento ci si augura che la fragilità dei paesi in via di sviluppo sia un tema centrale dei lavori della COP. Uno dei temi più delicati rimasti aperti dopo la COP dell’anno scorso è quello su “loss and damage” (perdite e danni) che prevede la disposizione di finanziamenti ai paesi a basso reddito che stanno già subendo pesanti danni legati all’alterazione climatica, oltre le loro capacità di adattamento. La responsabilità delle emissioni di gas a effetto serra è distribuita in modo molto disomogeneo tra i continenti.
Meloni punta sulle rinnovabili
Per quanto riguarda l’Italia, è allarmante come l’emergenza climatica e la decarbonizzazione del sistema economico trovino uno spazio insignificante nell’agenda e nei discorsi politici del neo-insediato governo, o vengano appellati con tono irrisorio e miope a difesa dello status quo. Dal discorso programmatico che Giorgia Meloni ha tenuto alla Camera dei Deputati una proposta concreta che è emersa positivamente è l’intenzione di sbloccare le autorizzazioni per le rinnovabili, in particolare riconoscendo il potenziale del Mezzogiorno. Al contrario, è apparsa titubante la volontà di orientare l’industria nazionale rispetto all’innovazione tecnologica, guidata dalla paura di nuove dipendenze (per i materiali critici) invece che dall’intenzione di gestire questo rischio con strategie di mercato e diplomatiche adeguate. Eppure, come emerge dal report Unep sull’emissions gap, non abbiamo sfruttato gli anni passati per intraprendere cambiamenti incrementali e ora non ci rimane che una trasformazione radicale dell’economia e della società.
Sebbene i riluttanti e i polemici non smettano di biasimare, dare retta alla scienza ha salvato molte vite dal Covid-19. Quando la politica si metterà ad ascoltare anche gli scienziati del clima?
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