Ridurre il Tax Gap è un obiettivo europeo, che condiziona il Pnrr

Il 2024 è iniziato all’insegna del problema fiscale. I termini sono presto detti. L’Italia ha preso l’impegno con l’Unione Europea di ridurre il Tax Gap, ossia il divario tra le entrate che lo Stato dovrebbe raccogliere e quello che incassa davvero. E’ un obiettivo collegato al Pnrr, che è rimasto fermo anche con l’ultima revisione.

E’ allora bene mettersi d’accordo, per capire davvero “a che punto siamo”? A cercare di mettere ordine nei numeri si è avviato lo stesso MEF, che il 2 gennaio del 2024 ha presto pubblicato l’aggiornamento della relazione sull’economia non osservata e sull’evasione fiscale e contributiva. La pubblicazione si è resa necessaria perché sono state riviste le stime della contabilità nazionale, che comprendono anche l’economia sommersa, facendo variare anche le stime sul Tax Gap.

Fonte: Relazione sull’economia non osservata e sull’evasione fiscale e contributiva - 2023 MEF

L’economia sommersa è scesa per la prima volta sotto il 10% del Pil, un piccolo successo.

Addentrandosi nella lettura della relazione, le notizie sono buone, perché nel 2021 lo Stato avrebbe perso 83,6 miliardi di euro a causa dei comportamenti illeciti dei contribuenti, con un calo del 3,1% rispetto all'anno precedente. L’attribuzione statistica del “vuoto fiscale” sarebbe dovuta a un’economia sommersa che rileverebbe ancora per il 9,5 per cento del Pil, ma sarebbe scesa per la prima volta sotto il 10 per cento. I paesi sviluppati hanno un’economia informale compresa nella forchetta il 5 e il 10 per cento del loro Pil e dunque il risultato appare incoraggiante.

Entrando nel merito del tema, dobbiamo parzialmente correggere questa convinzione. I risultati sono positivi, ma parziali. Facendo pari a 100 il valore aggiunto sommerso, la causa di quest’ultimo sarebbe per il 52 per cento la sotto-fatturazione e per il 39 per cento l’abuso del lavoro irregolare. Il tax gap sarebbe dunque frutto di questa semplice accoppiata. Sicuri che sia così? La pensiamo diversamente.

Il Tax Gap non nasce solo dal sommerso, ma anche dal deficit di regolamentazione

Abbiamo sbirciato tra le carte sul tax gap che circolano in sede europea e ci pare che non si sia dato peso a due fenomeni, non trascurabili. Il primo è il deficit di regolamentazione o policy gap e il secondo è l’impalpabile presenza dell’elusione fiscale, entrambi in grado di creare un gap fiscale considerevole e perfino maggiore di quello da “settore sommerso”.

Partiamo dal primo. Per riuscire a metterlo in chiaro abbiamo ricostruito una tabella (Tabella 1, vedi sotto) che confronta il gettito teorico ed effettivo dell’Iva in proporzione del Pil nel 2021. Come si vede dalla tabella sottostante, realizzata dal Centro Einaudi usando i dati ufficiali della Commissione UE, nel 2021 l’Italia ha riportato un Vuoto di Iva (da cui poi deriva, per trascinamento, il vuoto di imposte dirette e di contributi sociali), pari al 5,2 per cento del Pil: un record tra i quattro paesi elencati della tabella. Al secondo posto la Spagna con il 4,6%, quindi la Francia con il 3,6% e infine la Germania con il 2,5%. Questo gap è solo in misura ridotta un vero “compliance gap”, ossia frutto di evasione rispetto alle regole fissate. Infatti, il “compliance gap”, che è sostanzialmente quello che sottolinea il MEF, non raggiunge il punto percentuale del Pil (0,8%), e pazienza se la media europea è dello 0,5% del Pil e la Spagna, probabilmente in ragione di una digitalizzazione pronunciata, ha un “compliance gap” appena dello 0,1%, inferiore a quello della Germania (0,2%).

 

Tabella 1 - Il Vuoto di Iva (Vat Tax Gap) nel 2021 in percentuale del Pil, secondo le cause che lo producono per quattro paesi europei (dati EU Commissione VAT Gap in Europe Report 2023 ).

Fonte: elaborazione Centro Einaudi

 

Il policy gap, frutto delle esenzioni e delle spese fiscali, supera l’evasione

A dirla tutta, la parte del leone nel far mancare gettito alle casse dello Stato Italiano, che vanta il record di debito pubblico e che finirà pressoché certamente nel 2025 nel “braccio correttivo” del nuovo patto di stabilità europeo, è la regolamentazione. Sono le norme Iva applicate, e in particolare i generosi esoneri e le esclusioni impositive che producono un “gettito a colabrodo”. A fronte di 0,8 punti percentuali di Pil di evasione, probabilmente a carico di micro imprenditori e lavoratori indipendenti evasori, le forme di esenzione “a norma di legge” producono un vuoto di gettito dell’1,9 per cento del Pil, più del doppio del gettito che manca all’appello a causa dei furbetti. C’è poi la questione dei tassi applicati. Il tasso medio effettivamente applicato (alle basi imponibili già sacrificate) è del 9,5 per cento, contro una media europea dell’11,8. Tanto basta perché nelle agevolazioni di tasso si perdano altri 2,5 punti percentuali di Pil di gettito Iva.

Fonte: Relazione sull'economia non osservata e sull'evasione fiscale e contributiva 2023 - MEF

Negli ultimi anni la corsa alle spese fiscali, ossia alla concessione di regimi particolari a contribuenti particolari, non ha aumentato l’evasione, producendone però gli stessi effetti: ossia lo Stato ha incassato di meno, trattando i contribuenti diversamente. Non proprio un’idea acuta né liberale, per un paese che ha un sistema fiscale da riformare e che insegue da decenni, vanamente, la stabilizzazione dei conti pubblici.

Alla fine i legislatori hanno perso gettito con la mano sinistra, mentre cercavano di recuperarlo con la destra: tra l’altro, la diffusione della fatturazione elettronica è la reale responsabile della concreta riduzione del compliance gap, quindi la tecnologia e l’amministrazione hanno lavorato nella giusta direzione cercando di aiutare il processo di raccolta delle imposte.

L’elusione fiscale dei redditi personali degli ultra ricchi.

La sostanza del report EUTAX 2024 che Luca Deaglio riassume per Mondo Economico è poi che esiste un vuoto fiscale aggiuntivo nei paesi sviluppati di almeno 1000 miliardi di dollari. Quest’altro vuoto non riguarda solo l’Italia – anzi – ma si somma al Policy Gap e si basa sugli schermi offshore – e non solo - offerti a grandi imprese e grandi capitalisti. C’è da restare rabbrividiti. A sfogliare pagina per pagina il rapporto di ricerca emerge che un contribuente medio in qualsiasi regime occidentale paga le imposte personali con aliquote alle quali molti tra gli ultra ricchi non sono sottoposti mai. Per loro l’aliquota effettiva si ferma a metà o meno ancora. Ovviamente questo non è automatico, perché per arrivare al risultato occorre mettere in moto schermi di interposizione, strutture giuridiche, a volte annidate l’una nell’altra, fino a che giocando tra le differenze legislative nazionali, nonché contando sulla concorrenza fiscale tra i governi della stessa Unione, il risultato viene ottenuto.

Si tratta, a ben vedere, di un altro dei risultati opachi della globalizzazione. La libertà di movimento dei capitali è seguita a quella delle merci ed è stata addirittura preferita alla libertà di movimento delle persone e dei lavoratori. Al seguito di questa si sono prodotte le condizioni per offrire vantaggi fiscali nascosti dietro a una parola nuova: elusione e non evasione. In altri termini, l’elusione sarebbe legale, anche se non in tutti i regimi ormai è così, e comunque dimostrare che una certa elusione è evasione effettiva è cosa complessa assai.

Uno dei meccanismi più semplici tra gli ultra ricchi degli Stati Uniti è il seguente: chi possiede un’azienda o parte di essa ne conferisce la proprietà a una fondazione o trust all’estero che le amministra per conto suo. La fondazione non verserà redditi al beneficiario, ma erogherà prestiti che il proprietario userà per sostenere il tenore di vita, qualche volta deducendoli. Le imposte personali sono quindi minime.

Ovviamente i dividendi usciti dall’impresa avrebbero pagato un’imposta (compresa tra lo zero e il 23,8% a seconda del paese dove è stata versata), ma anche nel più oneroso dei casi, questo 23,8% sarebbe ben inferiore all’aliquota marginale personale (37% negli Usa), senza contare che con questo meccanismo solo i dividendi pagano imposte, ma siccome il dividend yield americano consiste in un rendimento medio dell’1,5% rispetto a un rendimento complessivo del 10,37% (dal 1957 ad oggi), per lo più incorporato nelle plusvalenze maturate offshore, azionisti, queste potrebbero non essere tassate mai.

La digitalizzazione non basta. E’ ora di intervenire sulle norme

Contrastare l’evasione tradizionale è diventato più facile, grazie alla digitalizzazione e al tracciamento, ma i sistemi fiscali hanno successo nel raccogliere le imposte di coloro che lavorano e producono dentro i confini degli Stati. Hanno invece perso traccia di buona parte del gettito dovuto dai più abbienti e nomadi, rendendo la tassazione regressiva per coloro che sono ricchi davvero. Per addolcire l’amara pillola al ceto medio i governi hanno aperto i rubinetti dei bonus fiscali, poco trasparenti e che garantiscono un certo consenso a chi sta nella stanza dei bottoni, creando un policy tax gap che si mangia i miglioramenti nel compliance tax gap.

Quando le imposte, per dirla con Einaudi, non sono “vere” bensì “apparenti”, la spesa dello Stato è finanziata dai “prestiti o dalla moneta”. Durante la pandemia e a causa della guerra in Ucraina, i banchieri centrali hanno prodotto la moneta per consentire ai deficit di correre. Se ora saranno fermi nel dire che non si può continuare con la creazione di moneta, i governi dovranno decidere tra tagliare la spesa pubblica e quindi lo stato sociale, oppure recuperare i gettiti che hanno lasciato andare.

Il periodo di indulgenza e concordia tra fisco e capitali potrebbe finire, per quanto l’imposta minima del 15% sul reddito delle multinazionali sia un primo passo, non del tutto soddisfacente.

Purtroppo esiste sempre la possibilità che poco o nulla cambi, e in questo caso ad alterarsi sarebbero inevitabilmente i mercati obbligazionari dei titoli governativi, quelli da sempre considerati più sicuri. A novembre Moody’s ha confermato il rating tripla A al tesoro americano, ma di mala voglia, modificando l’outlook da stabile a negativo. L’agenzia ha dato alla segretaria Yellen una “spinta gentile” a stabilizzare i conti pubblici, non solo tagliando le spese, ma facendo tornare i conti del gettito. Il re, insomma, è nudo. Riuscirà il capitalismo a rivestirlo in tempo? La questione è del tutto sul tappeto e tutti dovrebbero considerare che la stabilità macroeconomica planetaria è a rischio, non solo a causa dei soliti paesi latini. Questa volta le gatte da pelare riguardano anche i piani alti del G7.

 

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