«Pensare che il digitale sia un altro strumento di comunicazione, una nuova tecnologia per diffondere conoscenza, è del tutto limitativo, il digitale è un ambiente», scrive Luciano Floridi. L’ho letto. Ma quando l’ho ascoltato di nuovo, in call per il Digital Ethics Forum di Sloweb circa un mese fa, d’improvviso mi ha colpito più a fondo, mi ha emozionato e fatto pensare.

Se il digitale è un ambiente, se è uno dei due ambienti più importanti in cui viviamo, chi bada a tenerlo pulito?

Chi pensa a far sì che non collassi tanto rapidamente quanto rapidamente si è sviluppato?

Nel messaggio predisposto per il Forum avevo accennato ai limiti dello sviluppo del digitale. Ne parlerò ancora e meglio il prossimo 16  dicembre alle “Conversazioni di Biblioteca” – due parole rare e preziose - del Politecnico di Torino con esperti di consumo energetico del digitale e di filosofia delle scienze e comunicazione. Cliccando qui trovate il programma dell'incontro che può essere seguito su YouTube.

Aurelio Peccei e il MIT di Boston

Cinquant’anni fa il Club di Roma, diretto da un dirigente Fiat di nome Aurelio Peccei, commissionò uno studio al Massachusetts Institute of Technology (MIT) di Boston chiedendo: quali sono i limiti dello sviluppo economico? Il concetto era rivoluzionario, il rapporto MIT - The limits to growth - fu importantissimo: d’improvviso un paletto stava conficcato a segnare un limite nella prateria di un mondo che non sembrava avere limiti soltanto per gli stolti che non li sapevano  o no li volevano vedere.

Lo stesso oggi succede con il digitale.

Soltanto gli stolti possono pensare che possiamo fare tutto ciò che la tecnologia ci può offrire, passando ogni istante svegli a reagire a stimoli di schermi piccoli o grandi, offrendo crack ai bimbi a ogni angolo di strada...

I limiti della tecnologia

Il digitale ha limiti, di tipo energetico, economico e sociale, che cambiano nel tempo. Come ogni tecnologia: la disuguaglianza, la corruzione delle relazioni, dei comportamenti e della verità, lo sfruttamento dell’uomo e/o dell’ambiente hanno ahimè dei limiti, l’ultimo dei quali corrisponderà con la scomparsa del denominatore stesso, l’umanità.

Guardando al progresso economico, il digitale pare aver costruito l’industria più profittevole di ogni altra sinora mai vista, incluse quelle criminogene. Il biologo e antropologo americano Jarred Diamond, dopo Armi acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni (ebbene sì, malattie), ha scritto Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere. È più  noiosetto. Ma negli ultimi capitoli analizza come l’industria Oil si sia adattata e meglio di quella Mining alle richieste di minor impatto ambientale e sociale. Perché l’Oil è più profittevole del Mining. E perché la filiera dell’Oil è più corta del Mining (compriamo al distributore Esso o Shell… quando compriamo uno smart phone non compriamo BHP o Rio Tinto, anche se sono loro che con attività più o meno pulite producono i materiali necessari ai nostri device).

Il detox digitale

Ho lavorato per anni nell’appassionante fase di rendere più green l’Oil e il Mining. Per questo non posso resistere dall’estendere quanto dice Diamond alla industria ICT delle telecomunicazioni e delle informazioni. Qui i profitti sono ancora più alti e la filiera è ancora più corta (mentre digito mi pare di vedere Jeff Bezos, Bill Gates e pure Mark Zuckerberg proprio qui sul mio schermo...).

Possiamo pensare a un uso ecologico dei dati digitali: produrre solo quelli necessari, evitare scarti e sprechi di tempo e denaro.

Possiamo pensare a prevenire inquinamenti del web, a processi di bonifica basati sul rischio indotto, a una filiera di servizi e lavoro per uno sviluppo del web più sostenibile.

Non possiamo non diffondere educazione civica digitale, usando ogni opportunità di educarci a un web equo, pulito e solidale, ora, proprio ora che stiamo imparando quanto abbia valore un ambiente equo, pulito e solidale.

La vulnerabilità dell'ICT alla prossima domanda per un digitale etico, l’autocontrollo dell’industria, la riduzione dell’impatto sociale, ecologico e economico della app è molto più alta di ogni altra industria vista sinora. Ne vedremo delle belle.

Abbiamo ogni ragione di speranza perché le istanze che iniziano a manifestarsi possano trovare orecchie sensibili e portare rapidamente a una digitalizzazione veramente smart dell’Italia.

Cogliamo l’opportunità di far sì che la nostra digitalizzazione non somigli alla corsa all’oro – con meretrici,  abusi, truffe e fake news di ogni genere – che si è vista in altri Paesi, più rapidi di noi ad afferrare le opportunità. Ma anche più rapidi di noi nel subirne certi rischi.