«Quando si va al ristorante con il menu ci offrono la carta dei vini. Ecco, il nostro sogno è arrivare ad avere una lista delle carni. Così come scelgo un Barolo o un Barbaresco dovrei poter decidere tra una Piemontese o una Chianina autentiche». Franco Martini, allevatore di Chivasso e presidente di Asprocarne, associazione che riunisce 500 produttori di carni bovine, in buona parte piemontesi, ma con soci anche in Lombardia e Liguria, ha fatto della tracciabilità la ragione di una battaglia. Lui vorrebbe che chiunque compra carne conosca la storia dell’animale che porta in tavola. Perché è il modo migliore per valorizzare chi fa le cose per bene. Asprocarne lo fa, almeno a giudicare dai numeri. Il 2022 si è chiuso con un fatturato record (21,5 milioni) che, probabilmente, sarà già ritoccato quest’anno. Nonostante i consumi di carne in Italia siano in calo. Secondo gli ultimi dati – per la verità un po’ ballerini – siamo a 8,5 Kg pro capite l’anno che rappresenta la quantità che si mangiava 70 anni fa. Lontani dai 14 Kg pro capite dell’epoca del boom economico.
Presidente, c’è una crisi della carne?
«Non direi. Semmai c’è un momento di difficoltà per la razza piemontese che pur essendo tra le più pregiate tanto che viene incrociata in mezzo mondo con razze più povere per garantire vitelloni comunque di qualità fatica a imporsi tra i consumatori. E non solo perché non è una carne facile da preparare».
Quali sono le altre ragioni?
«Forse perché non si è fatto abbastanza per valorizzarla. A cominciare dal know how che c’è dietro l’allevamento di questa razza. Ecco perché servirebbe innanzitutto che nei ristoranti si dimostrasse che quella che viene servita è davvero carne piemontese. Nella precedente legislatura avevamo anche presentato un disegno di legge in commissione agricoltura perché si imponesse la tracciabilità della carne. Di tutta la carne. Le racconto un episodio. A Milano mi è capitato di entrare in un ristorante che vantava la chianina fiorentina. Ma poi quando ce l’hanno servita ci siamo accorti che era carne polacca. Niente da ridire. Buona anche quella. Ma se io voglio la chianina o la piemontese devo avere la certezza che lo sia. Questione di trasparenza. Ecco perché servirebbe una carta delle carni»
E chi è che frena?
«Un po’ tutti. C’è una sorta di muro di gomma. Dal piccolo macellaio alla grande distribuzione, a chi trasforma le carni. Eppure basterebbe un Qr code sulla confezione per consentire a chi compra di sapere subito vita morte e miracoli dell’animale. Così però si finisce per favorire la concorrenza sleale. Magari si spaccia per piemontese un taglio di carne comunque buono ma che non è quello promesso».
L’Europa da che parte sta?
«Di sicuro non ci aiuta. L’unica cosa che impone Bruxelles è che sia carne europea. Questo prescrivono i regolamenti comunitari. Ma così si finisce tutti nello stesso calderone. Penalizzando il lavoro degli allevatori che si battono per valorizzare una razza piuttosto che un’altra».
Voi peraltro come Asprocarne non allevate solo razza piemontese ma anche capi di origine francese, in particolare la Blonde d’Aquitaine. Con quale obiettivo?
«Dietro questa scelta c’è un progetto cofinanziato dall’Europa che punta a valorizzare questa razza molto simile alla piemontese, a cominciare dalla magrezza della carne, originaria di una regione non distante dai Pirenei e considerata a tutti gli effetti un’eccellenza tra i bovini europei. Rispetto alla piemontese assicura una crescita più rapida nell’ingrasso. Noi prendiamo i vitelli quando hanno 8-12 mesi e li alleviamo per almeno sei mesi. Nella sostanza raddoppiano il loro peso: da 350 a 650-700 chili».
Voi importate il 48% dei capi. E' davvero necessario?
«Non c’è alternativa. In Italia non abbiamo un numero sufficiente di vacche fattrici, quelle che producono vitelli. Il Piemonte, proprio grazie alla produzione autoctona, è la prima regione d’Italia per numero di bovini con fattrici seguita dal Veneto, ma non basterebbero a soddisfare la domanda del mercato. Ecco perché dobbiamo ricorrere all’importazione».
Non c’è il rischio di ingannare il consumatore?
«Assolutamente no. A parte che dopo sei mesi di allevamento in Italia un capo nato all’estero diventa a tutti gli effetti un prodotto nazionale per tutta una serie di fattori, noi abbiamo creato un sigillo italiano che contraddistingue questi capi. Chi compra da Gulliver, Metro o Gigante trova sull’etichetta tutte le informazioni. A cominciare dalla nascita in Francia».
Fare l’allevatore è ancora un mestiere che piace?
«Devo dire che a differenza della vicina Francia, dove c’è stato un vero abbandono, qui da noi resiste e crescono i giovani. Sarà merito delle tecnologie che aiutano a rendere il lavoro meno pesante e più efficiente, ma negli allevamenti si assiste a un ritorno. Spesso a spingere questi giovani è semplicemente la passione, l’amore per gli animali. Le stalle hanno un futuro».
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