Il periodo di disorientamento dovuto alla pandemia è un punto di svolta. Fors’anche provvidenziale. Abbiamo superato il limite: il modello economico nato con la industrializzazione di massa ha portato crescita e sviluppo, ma anche diseguaglianze, egoismo, grandi fratture negli ecosistemi. Lo si definisce proprio per questo un modello “estrattivo”, perché ha estratto e spremuto risorse senza rigenerarle. Dunque, con una grave miopia sul futuro.
Si dice che l’uomo impari dagli errori che commette. Ma non sempre la lezione della storia viene acquisita. Ora, però, serve una robusta azione correttiva, che deve vedere coinvolti insieme decisori pubblici e privati. Noi imprenditori possiamo dare un contributo importante all’Italia. Con serietà, senza perderci d’animo, con intenzioni chiare. Bisogna investire di più per far crescere il Pil e diminuire il deficit, puntando sulle tecnologie che portano a un modello “rigenerativo” fondato sulla economia circolare. Dobbiamo farlo anche se sembra contro intuitivo e nonostante la mancanza di un clima di fiducia: sono proprio i troppo pochi investimenti che hanno portato l'Italia in stagnazione e a perdere competitività.
Non c’è alternativa. L’Europa, con il Green Deal e con i fondi Next Generation, ci sta dicendo esattamente questo.
Dobbiamo diventare più efficienti a parità di prestazioni, arrivando a bonificare dove si è inquinato e a riforestare là dove si è cementificato. La sostenibilità è un imperativo trasversale. Riguarda le scelte ambientali e strategiche, ma anche la buona gestione economica: il profitto è necessario per finanziare gli investimenti. E va innervato dall’intenzione civica di essere sui mercati per creare comunque un impatto positivo per la collettività, senza arroccarci in quella finanziarizzazione che considera soltanto gli shareholders e non gli stakeholders. Dobbiamo perseguire con tenacia il benessere che crea – e ancora può creare – l’impresa con sviluppo, sostenibilità, occupazione e gettito fiscale.
Sembra l’uovo di Colombo, eppure è una direzione che va imboccata con decisione. Siamo perciò ottimisti e positivi: la scienza, per creare le condizioni, c’è; la tecnologia esiste già in buona parte, ma se ne aggiungeranno altre. La situazione geopolitica è molto complessa, certo: ci sono le variabili delle imminenti elezioni negli Usa e l’incertezza del Covid-19, ma non mancano le premesse per arrivare in tempi relativamente brevi a una health-age. In Italia dobbiamo avere un sussulto di visione e di atteggiamento, un po’ come accadde nel secondo dopoguerra. Se intendiamo andare lontano, bisogna camminare insieme, per sbloccare lo stallo e tornare in posizione di leadership: lo dobbiamo al Paese, lo dobbiamo ai nostri figli.
Un sogno? Una utopia? Io, da imprenditore, ho sperimentato che soltanto una intelligenza collettiva – di squadra, di sistema – può essere vincente, a maggior ragione se mette da parte particolarismi, campanilismi e ideologie, i mali peggiori dei noi italiani. Che tuttavia, quando ci scopriamo al fondo, riusciamo a tirarci su le maniche con uno straordinario scatto di reni.
Con altri amici abbiamo deciso di impegnarci per questo in una nuova iniziativa, la Regenerative Society Foundation, di cui sono co-presidente con l’economista Jeffrey Sachs. Lanceremo Regeneration 2030 a Parma i prossimi 15 e 16 ottobre. Partiamo da una convinzione: il settore privato rappresenta oltre i due terzi dell’economia, per cui aziende e industrie – se vogliono – possono innescare una massa critica in grado di avviare il cambiamento. Con o senza la politica, non vi sembri presuntuoso, ma perché bisogna partire. Almeno, all’inizio, con slancio, contagiando poi le diverse componenti della società
Se intendiamo innescare una transizione, occorre produrre conoscenza, con una grande coalizione accademica, finanziaria e istituzionale. Con me e la Fondazione Ernesto Illy, sono compagni di viaggio Chiesi Farmaceutici, Davines, Mediolanum, Mutti, la Fondazione Sviluppo Sostenibile, Nativa, il Sustainable Development Solutions Network dell’Onu. Tra i partner figurano anche il Center for Bhutan Studies e la Pontifica Accademia delle Scienze Sociali. La porta è aperta, la direzione è quella di avere imprese in grado di indicare intenzionalmente già nei piani industriali gli obiettivi rigenerativi e di ricaduta sociale. Qualcuno ha scelto la strada delle B-Corporation: nessuno schema deve essere rigido, l’importante è comunque assumere questa prospettiva.
Perché non provate a salire a bordo? Perché non condividere insieme questo cammino?
Servono idee, strumenti, proposte. Abbiamo bisogno di startup sostenibili, ma anche che tutte le aziende diventino più sostenibili. Questa attenzione non è uno strizzare l’occhio alla moda, alla narrazione del climate change; non è un cambiamento opportunistico, ma una scelta profondamente etica: si vive per essere felici e per contribuire al progresso. Ecco, la felicità è per me il motore, la scintilla per dare valore anche all’asset dei beni relazionali. Insomma, cari imprenditori: non demonizziamo i profitti, ma orientiamoli al bene comune affrontando a testa alta i mercati. E cambiamo strada. Ora o mai più.
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