Slittano di un anno le gare per le concessioni degli stabilimenti balneari. Sono stati infatti approvati nella serata del 15 febbraio tutti i quattro emendamenti al decreto “Milleproroghe” in materia di concessioni balneari, che ne prolungano la validità di un anno e impediscono ai Comuni di espletare i bandi per i prossimi cinque mesi.
Nel pomeriggio si era avuta la sensazione che la proposta – presentata da Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia – non potesse farcela: i lavori in Aula erano infatti stati sospesi per più di un’ora a causa della possibile opposizione della Ragioneria di Stato, poi smentita da una nota del Ministero dell’economia. Ma dopo una concitata trattativa, la posizione delle forze di maggioranza ha avuto la meglio ed è così arrivato il voto favorevole all’emendamento che allunga ufficialmente la validità delle concessioni di un intero anno, spostandone la scadenza dal 31 dicembre 2023 (previsto dalla legge sulla concorrenza del governo Draghi) al 31 dicembre 2024.
A passare sono stati anche gli altri due emendamenti che fanno slittare di cinque mesi il termine per effettuare la mappatura delle concessioni balneari, da fine febbraio a fine luglio, e consentono il mantenimento delle strutture balneari amovibili fino al 31 dicembre 2023. La proroga di un anno delle concessioni balneari è dunque una misura approvata ufficialmente dal Senato, che non sarà più passibile di modifiche alla Camera. Il governo ha infatti già annunciato che al secondo passaggio in aula, previsto per il prossimo mercoledì 22 febbraio, sarà posta la questione di fiducia, blindando di fatto il testo nella versione approvata da Palazzo Madama.
La ragione dell’emendamento
La motivazione ufficiale dell’emendamento che ha introdotto la proroga di un anno è duplice: da una parte effettuare la mappatura del demanio marittimo al fine di verificare «la sussistenza della scarsità della risorsa naturale disponibile», e dall’altra istituire un tavolo tecnico tra i ministeri competenti e le associazioni di categoria per concordare i contenuti della riforma delle concessioni balneari, avviata dal precedente governo Draghi con la legge sulla concorrenza (legge 118/2022) che per la prima volta in Italia ha voluto introdurre la riassegnazione dei titoli tramite gare pubbliche.
Tuttavia, la proroga - per quanto breve - continua a rappresentare un grande rischio, dal momento che a novembre 2021 il Consiglio di Stato – con la nota sentenza che ha annullato la precedente proroga al 2033 e imposto la riassegnazione delle concessioni balneari tramite gare pubbliche entro il 31 dicembre 2023 – ha anche dichiarato che qualsiasi ulteriore rinnovo automatico sarebbe stato illegittimo e immediatamente disapplicato dalla giustizia amministrativa. Il timore è dunque che, se non si farà in fretta a completare il riordino del demanio marittimo per restituire certezze definitive al settore, possano esplodere centinaia di contenziosi come già avvenne con la proroga al 2033 che alcuni Comuni si rifiutarono di applicare poiché in contrasto col diritto europeo.
La legge sulla concorrenza (la 118/2022 approvata lo scorso agosto dal governo Draghi) aveva fissato la scadenza delle concessioni balneari al 31 dicembre 2023, dando anche la possibilità, alle amministrazioni comunali, di espletare le gare entro il 31 dicembre 2024 in caso di difficoltà oggettive e motivate. In seguito all’approvazione dei due emendamenti, invece, i due termini sono stati spostati rispettivamente al 31 dicembre 2024 e 31 dicembre 2025.
Un tavolo con dieci ministeri
Al contempo, la nuova norma impone di istituire «presso la presidenza del consiglio dei ministri un tavolo tecnico con compiti consultivi e di indirizzo in materia di concessioni demaniali marittime, lacuali e fluviali […] composto da rappresentanti del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, del Ministero dell’economia e delle finanze, del Ministero delle imprese e del made in Italy, del Ministero dell’ambiente e della sicurezza energetica e del Ministero del turismo, da rappresentanti del Ministro per la protezione civile e le politiche del mare, del Ministro per gli affari regionali e le autonomie e del Ministro per gli affari europei, da un rappresentante delle regioni e da un rappresentante per ogni associazione di categoria maggiormente rappresentativa del settore.
Il tavolo tecnico, acquisiti i dati relativi a tutti i rapporti concessori in essere delle aree demaniali marittime, lacuali e fluviali, elaborati ai sensi all’articolo 2 della legge 5 agosto 2022, n. 118, definisce i criteri tecnici per la determinazione della sussistenza della scarsità della risorsa naturale disponibile, tenuto conto sia del dato complessivo nazionale che di quello disaggregato a livello regionale, e della rilevanza economica transfrontaliera».
Il limbo in riva al mare
Finché la riforma non sarà completata, il settore balneare continuerà insomma a trovarsi in una sorta di limbo nel quale le principali vittime sono ad oggi le aziende dell’indotto (ovvero i produttori di lettini, ombrelloni, cabine, arredi, tecnologie e servizi per le imprese balneari) che stanno subendo un blocco totale degli investimenti. D’altra parte, però, il nodo balneari agita ancora i rapporti tra Roma e Bruxelles. L’intervento inserito nel decreto Milleproroghe mette in allarme Bruxelles che interviene: “Cogliamo l’occasione per ribadire che il diritto Ue richiede che le norme nazionali sui servizi assicurino la parità di trattamento degli operatori, promuovano l’innovazione e la concorrenza leale” e “proteggano dal rischio di monopolio delle risorse pubbliche”.
L'impennata del canone d'affitto
Intanto, i canoni delle concessioni demaniali marittime per il 2023 saranno più alti del 25,15%. Lo ha deciso il Ministero delle infrastrutture e si tratta dell’aumento più elevato mai avvenuto. L’aumento è stato calcolato facendo la media sul paniere Istat tra i prezzi all’ingrosso e i prezzi al dettaglio dell’anno appena concluso, quindi tra +40% e +9%. Già nel 2022 era avvenuto un aumento storico, pari al +7,95%, il più alto mai registrato prima d’ora mentre negli anni precedenti, invece, i canoni erano stati leggermente diminuiti del -1,85% nel 2021 e del -0,75% nel 2020. In conseguenza all’adeguamento agli indici Istat, il canone demaniale minimo per il 2023 ammonterà a 3.377,50 euro, mentre fino allo scorso anno era di 2.698,75 euro. Resta il fatto che 312 stabilimenti balneari pagano meno di 100 euro l'anno allo Stato per la concessione e i tre quarti dei gestori hanno un canone inferiore ai 5.000 euro. In tutto il governo ha incassato tra il 2016 e il 2020 una media di 101,7 milioni l'anno, meno dei 111 milioni di euro che erano stati preventivati. A fronte di un giro di affari "stimato del settore" che, sottolinea il Consiglio di Stato, si aggira "intorno ai quindici miliardi di euro all'anno".
La Romagna "regina" degli stabilimenti
Una categoria molto vasta quella delle concessioni balneari. È, infatti, di 7.173 il numero di stabilimenti balneari operanti lungo tutta la penisola italiana, il 25% in più rispetto a dieci anni fa. Lo rivela un’indagine di Unioncamere sulla base dei dati del Registro delle imprese delle Camere di commercio, aggiornati al 31 dicembre 2021.
Lo studio sottolinea che, calcolando solo i 770 Comuni costieri italiani, la media nazionale è di circa uno stabilimento balneare ogni chilometro di costa italiana. L’Emilia-Romagna è la regione con il maggiore numero di stabilimenti balneari in Italia, ben 1.063, circa il 10% del totale nazionale. Di questi, 191 si trovano a Ravenna, 155 a Rimini, 153 a Cervia, 117 a Riccione e 114 a Cesenatico, per citare solo le prime cinque località della riviera. Se si conta che la costa emiliano-romagnola è estesa per 135 chilometri, ma solo 108 di questi sono adibiti alla balneazione, si può calcolare che in questa regione si trova in media uno stabilimento balneare ogni 100 metri circa di spiaggia balneabile.
Nella classifica italiana sul maggiore numero di stabilimenti balneari, sul secondo gradino del podio troviamo la Toscana con 914 imprese. Qui la densità è molto minore, dal momento che la costa toscana è lunga ben 397 chilometri e dunque troviamo in media 2,3 stabilimenti ogni chilometro. A livello di singola località, però, Camaiore batte il record nazionale di densità, contando ben 91 stabilimenti balneari su appena 3 chilometri di costa, ovvero ben 30 ogni chilometro. Al terzo posto della classifica fra regioni c’è la Liguria con 807 imprese balneari su 330 chilometri di litorale (2,4 per chilometro). Secondo lo studio di Unioncamere, dal 2011 c’è stato un significativo aumento di numero di stabilimenti balneari, incrementati di ben 1.443 unità in dieci anni.
La Calabria guida l'exploit del Sud
«Le protagoniste della crescita nell’ultimo decennio sono le regioni del Sud, decisamente lanciate al recupero delle posizioni rispetto al centro-nord», sottolinea l’indagine. «Nel periodo considerato, la crescita più rilevante in termini assoluti ha interessato la Calabria (+328 unità) che ha raddoppiato la dotazione del 2011. Seguono la Sicilia (+198 attività, +67,6% nel decennio), la Campania (+184) e la Puglia (+160). In termini relativi, l’accelerazione più consistente del decennio è quella della Sardegna (+162,5%)». Dai dati delle Camere di commercio emerge che l’esercizio dell’attività di stabilimento balneare si realizza prevalentemente sotto forma di società di persone (3.507 le aziende con questa forma giuridica alla fine del 2021, pari al 43% del totale), riflettendo la frequente conduzione familiare di questo tipo di azienda. A scegliere la formula della società di capitale sono invece 2.099 imprese (29% del totale), mentre la restante quota del 28% si distribuisce tra imprese individuali (25%) e altre forme, principalmente costituite da cooperative (3%).
La governance
Quanto alla governance, un’impresa balneare su quattro è guidata da donne (1.809 attività, il 25,2% del totale, un dato superiore alla media sul totale nazionale del 22,1%) mentre solo il 6% (427 realtà) risulta guidata da giovani under 35, una quota inferiore alla media nazionale dell’8,9%. Il maggiore numero di stabilimenti balneari a conduzione femminile si trova in Calabria con il 31,3%, seguito da Friuli Venezia Giulia col 31%, Toscana col 28,8% e Lazio col 28,6%. La regione con il minore numero di rappresentanza rosa è il Veneto con l’11%. In merito al fatturato, infine, “prendendo in esame le circa 1.700 società di capitale per cui sono disponibili i dati di bilancio – afferma Unioncamere – la foto restituita dal Registro delle imprese disegna l’identikit di un settore popolato per il 68,4% da realtà al di sotto dei 250mila euro di fatturato, mentre il 18,6% si colloca tra i 250 e 500mila euro, il 9,5% è nella fascia tra 500 mila e 1 milione di euro e infine un piccolo drappello (il 3,4%) totalizza a fine anno incassi superiori ai sei zeri”.
La necessità delle gare
Anche la frammentazione del settore, imporrebbe interventi normativi. A maggior ragione – spiega l’Istituto Bruno Leoni - dopo dieci anni, dopo gli interventi giurisprudenziali e le iniziative europee - da ultimo il parere della Commissione al Portogallo circa la non corretta attuazione delle norme relative alle procedure di gara per l’aggiudicazione delle concessioni - il settore potrebbe iniziare a guardare alle gare competitive “come un’occasione da cogliere, e non un rischio da evitare”. Molti operatori, comprensibilmente, temono di non avere i requisiti economici, organizzativi e dimensionali per poter competere in una gara pubblica, soprattutto se dovessero partecipare alle stesse imprese dalle spalle larghe. “Questo problema – si legge in un recente report- si può ovviare in due modi complementari. Da un lato, si deve evitare che l’assenza di una iniziativa legislativa renda direttamente applicabili i principi di diritto europeo, come avverrebbe allo spirare del termine concesso dal Consiglio di Stato”. L’intervento normativo, in altri termini, è l’occasione per tenere in considerazione gli investimenti realizzati, il loro valore residuo, la continuità operativa, la tutela occupazionale.
Le carte per unire le forze
D’altro lato, gli operatori possono unire le forze e partecipare sotto forma di raggruppamenti temporanei di imprese (dette Rti o Ati), come appunto proposto dall’Istituto Bruno Leoni da anni. In tal modo, potrebbe essere più facile formulare un’offerta competitiva e, soprattutto in ottica pro-concorrenziale, favorire la partecipazione di soggetti che, singolarmente, non ne avrebbero la possibilità. Oltre alle associazioni temporanee, gli operatori potrebbero pensare anche a forme più stabili nel tempo, come i consorzi con attività interna o esterna, i contratti di rete oppure dare vita a una fusione tra piccole società per crearne una più robusta.
«Ciò potrebbe rafforzare ulteriormente la possibilità di crescita già menzionata. Perché unendo le forze, gli operatori potrebbero non fermarsi all’attuale comune di insediamento, ma ambire anche ad aggiudicarsi lotti nei comuni limitrofi o nella provincia. In tal modo, si inizierebbe altresì a diversificare meglio il rischio legato ad una mancata aggiudicazione, che potrebbe essere compensata da vittorie in altre gare». Prepararsi alle gare in tal senso, sfruttando gli strumenti ordinari già concessi dalla normativa e senza la necessità di normative ad hoc, sarebbe una scelta molto più lungimirante per il settore, anche per svincolarsi dal dover dipendere dagli umori di una politica che ha promesso per anni cose che sapeva di non poter mantenere.
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