Il suolo di Torino, sotto un primo paio di metri di loess argilloso ottimo per fare i mattoni, è fatto di ghiaione grigio, che in molte zone è cementato da matrice calcarea in un conglomerato chiamato puddinga (proprio dall’inglese pudding, dice Treccani), precipitate dall’incontro di acque sotterranee a diverse temperature e diverso chimismo. Per fare una metropolitana o il Passante Ferroviario devi conoscere, prevedere, predirne la localizzazione, e prescrivere le modalità di scavo. Nei primi anni ’80 noi ingegneri geotecnici facemmo calcoli statistici per verificare l’esistenza e la magnitudo di una correlazione tra l’energia spesa a perforare il sottosuolo e la presenza di quegli strati di puddinga duri e difficili da scavare. Avemmo successo. Oggi diremmo di aver usato l’intelligenza artificiale; ma si trattava soltanto di delicate analisi statistiche, un poco come quando usando Fotoshop riempiamo uno spazio tra un neo e un foruncolo del colore “mediamente” giusto.

L’utilizzo dei dati

Ci ancoravamo dunque a dati preesistenti, interpolando tra questi, a volte osando un’estrapolazione. Nulla di concettualmente nuovo rispetto a quanto i Sapiens facessero quando per generazioni si trovavano a fronteggiare un’intera glaciazione (più severa e più lenta del cambiamento climatico di oggi): riflettevano sull’esperienza, forse guardavano dove volavano gli stormi, narravano e avevano il tempo di ascoltare (il loro tempo di attenzione forse era di ore se non giorni non di secondi come il nostro) e poi decidevano; e nel complesso sopravvivevano, grazie all’intelligenza: alla capacità di intendere, pensare, giudicare, dice il dizionario Zanichelli.

Si noti che nella definizione di intelligenza non si trova la parola “calcolo”. Chi calcola è intelligente? Non direi, è proprio un’altra cosa.

Le parole sono importanti

Il Circolo dei Lettori apre un ciclo di incontri sull’intelligenza artificiale. A Torino abbiamo appena avuto la Tech Week, in cui il ceo di ChatGPT si è lamentato delle norme che frenerebbero lo sviluppo della sua meravigliosa creatura. Siamo sommersi da studi, dibattiti, chiacchiere, bufale, grida e saltimbanchi: tutti sanno dire sull’intelligenza artificiale.

 

Le parole sono importanti, ricorda Nanni Moretti. Il calcolo statistico non è necessariamente intelligenza artificiale, e l’intelligenza artificiale e il calcolo statistico usati con successo per decenni per interventi diagnostici (in campo geofisico, medico, e molti altri) non c’entrano nulla con le procedure dell’intelligenza artificiale generativa.

Intelligenza ha a che fare con il comprendere che non è solo e non tanto ingollare, trattenere e calcolare dati, ma è dare significato alle cose (anche anzi soprattutto quando queste sono poco spiegabili e in netta discontinuità con l’esperienza comune!). I motori di produzione di boli di passato – immagini e testi – sapranno presto anche riprodurre emozioni, simulare dispiacere.

Generativa farebbe poi intendere che qualcosa di nuovo si crea. Le donne generano figli, che hanno geni loro precedenti, ma in grado di evolvere, creare, distruggere, discontinuare. I procedimenti di calcolo dell’IA generativa – per quanto ho potuto leggere in articoli che ne esaltano la capacità di “capire” - non generano un bel nulla; rimasticano pezzi di passato, assemblandoli in modo “plausibile”, per soddisfare utenti spesso poco esigenti, inducendoci a accettare che questo è quello che si ha a disposizione, e quindi a essere sempre meno esigenti (ne parlo più oltre). Un mezzo tutto sommato mediocre, poco più di un gioco da circo, quando usato per produrre stringhe di parole o di pixel di apparente senso compiuto. Al circo possiamo certo andarci ogni tanto e portare persino i bambini, ma il giorno dopo li dovremmo portare a scuola, dove non si dovrebbe giocare con gli strumenti del circo.

L’emancipazione apparente

Vent’anni fa la mia società di ingegneria passò dalle puddinghe agli inquinamenti del sottosuolo. Iniziammo ad avere lavori spesso simili tra loro, per cui inventammo delle “macro” che usavano un poco di statistica e molto di tecnica “cut & paste” per produrre rapporti tecnici di basso valore e bassissimo costo. Dove il rapporto tecnico è poco più che una formalità - una “pezza d’appoggio” direbbe un burocrate - l’IA, la macro, ogni scorciatoia cut & paste vanno bene. Salvo, si intende, l’enorme quantità di errori prodotta, l’enorme lavoro di revisione necessario, la perdita di dignità, qualifica, remunerazione del lavoro richiesto; la cosa che perde di significato non è poi solo il testo, ma la ragione di esistenza stessa del testo. A che pro produrre – a costi energetici altissimi – le banalità che una macchina può produrre? Abbiamo davvero bisogno di altro pattume, su questo pianeta, per sprecare il nostro tempo, il nostro denaro, le nostre possibilità di progresso?

Non sarebbe più sensato un dialogo macchina – macchina, basato solo sui dati, senza fingere percorsi pasticciati e finti di emancipazione apparente verso la “conoscenza”?

Oggi si attribuisce all’IA – dimenticando quanto costa in energia, acqua, schiavi nelle galere dell’etichettatura – ogni sorta di progresso: diagnosi sorprendenti, passi sull’asteroide di passaggio, predizioni miracolose. Si fa un gran polverone, ma non per caso: ogni gadget che arriva dal sole californiano – dove pascolano le cash cows più floride del pianeta – genera soprattutto rumore, e soprattutto accumulazione di capitale.

Mentre ho rinunciato ierlaltro a organizzare un flash mob contro Altman a Torino, perché lui non c’era, adesso che l’ho ascoltato ho chiaro che non lo faremo neppure nel 2024: di quel signore tra un anno non ci ricorderemo più. Dove sono infatti finiti il Wow dello Smart Watch, il Cataclisma Alexa, il Big Bang del Metaverso, il cambio di Paradigma grazie a … ?

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Sono un eretico della rivoluzione digitale, non un infedele: credo nelle potenzialità della tecnologia, ma cerco di seguire chi tiene la testa fuori dalla gabbia. Leggo Eugeny Morozov e dell’IAgismo, leggo Byung Chul Han, anche Luciano Floridi. Non perché siano la mia bolla, ma perché rompono le bolle che media, industria, istituzioni costruiscono e consolidano in gabbie mentali intorno a me.