In occasione della Pentecoste il Dicastero della Comunicazione della Città del Vaticano ha pubblicato "Verso una piena presenza", una Riflessione pastorale sul coinvolgimento con i social media, di una decina di pagine a firma Paolo Ruffini - prefetto - e Lucio A. Ruiz - segretario, in inglese. Letta la versione in italiano, annoto qualche osservazione, da un punto di vista esterno alla fede cattolica e alle pratiche della chiesa.
L’autoreferenzialità
A partire dalla dicotomia relazione - connessione (che si invita a superare considerando i nuovi strumenti come complementari), e dalla necessità di guardare e curarsi del prossimo, la Riflessione affronta molti temi con excursus prettamente pedagogici - penso indirizzati ai ministri del culto - sui temi del furto dell'attenzione, dei nuovi "divide", della polarizzazione indotta.
La comunicazione sorprende per chiarezza e incisività, ma colpisce anche il fatto che non esistono citazioni bibliografiche esterne alla stessa Chiesa; nella Riflessione, per esempio, si cita il pensiero del filosofo Luciano Floridi circa l'onlife, ma non molto altro. Questo aspetto è forse tipico di queste “Comunicazioni”, ma noi, abituati ad altro tipo di scritti, siamo rimasti non poco sopresi e anche divertiti da tale autentica ingenuità.
Complementarità e bisogni
La Riflessione entra nel vivo quando invita all'uso degli strumenti digitali anche nella amministrazione del culto, seppure con le dovute prudenze, le necessarie attenzioni, di nuovo la "complementarità" dello strumento digitale verso la tradizione del culto che per certe fedi ha previsto per secoli una materializzazione di certi bisogni profondi dell’uomo, e a mio avviso una volgarizzazione di tali bisogni.
La Riflessione conferma verso il digitale un impegno profondo e incessante a capire e cercare di contrastare fenomeni sociali e anche valori prodotti o riprodotti nella nostra società: è chiaro che la Chiesa sente con forza quanto succede. È importante peraltro, a mio avviso, che la Chiesa ribadisca nei confronti dell'avvento del digitale l’importanza dell'esempio cristiano e dell'esempio del credente. Riferendosi alla parabola del Buon Samaritano si ricorda come lui portò alla taverna il ferito e si assicurò che ricevesse le cure.
Il tema – i social che cosa ci fanno e come militarci da fedeli – non consente di alzare lo sguardo all'impatto "pandemico" del digitale su ogni aspetto della società, sul fatto che dall’industria – non dalla tecnologia! - sono travolte le stesse regole del vivere civile. Si sente però la mancanza di un'analisi più vasta: quanto fanno i social è figlio di politiche digitali e di un'industria che ha un nome e cognome precisi, e non può essere ignorata. Uno dei valori che il digitale ha esaltato è l'individualismo (all'americana, non per caso) dove l'io prevale sul noi, e questo non può essere considerato un dettaglio. Così, si dovrebbe essere più chiari nell'analizzare quanto gioca il controllo top down da parte della piattaforma rispetto alla speranza di un suo uso "libero", tra utenti e in orizzontale. E quanto lascia poche speranze al buon cristiano, nei fatti, di una “piena presenza”.
I miei dubbi
Si accenna, ma non si approfondisce, la questione dei valori che il digitale porta nella società e spaccia per universali, quali quelli tipici del marketing. Più utenti / fedeli, per esempio, è un obiettivo lecito o illecito, per la Chiesa? Valore tipico del marketing, applicato alla fede non porta al genocidio?
Insomma, diversi valori oggi vincenti contrastano con il diritto civile nel quale siamo cresciuti e speriamo di morire, ma anche con i principi religiosi della Chiesa Cattolica, che nella protezione delle comunità e dei deboli in quelle, nella fede dell'esempio e nell'esempio della fede hanno permesso stabilità e successo - nel tanto bene e nel tanto male - per due millenni.
Si tratta di una Chiesa senza dubbio ferita, ma che reagisce, e in ciò facendo esprime non pochi valori importanti anche per chi, come il sottoscritto, lotta per un web giusto, equo e pulito.
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