La democrazia, perfino in guerra, è come un soldato che ha il dovere di combattere con un braccio legato dietro la schiena. Con questa immagine, ventuno anni fa, Aharon Barak, celebre presidente della Corte Suprema israeliana a cavallo del nuovo secolo, affrontò il tema “Democrazia, terrorismo e corti di giustizia” nella lectio doctoralis pronunciata all’Università di Roma Tor Vergata in occasione della laurea honoris causa in Giurisprudenza.

Che a utilizzare una simile immagine fosse lui, “inventore” pochi anni prima del controllo costituzionale delle leggi in un Paese che non ha una Costituzione scritta (e che nei mesi scorsi ha avviato un percorso di arretramento proprio sull’autonomia della giurisdizione), va ben oltre il valore giuridico e filosofico di tale posizione, perché quella immagine l’aveva utilizzata proprio lui, in una sentenza allora recente, per stabilire - in un Paese sostanzialmente in guerra - se la tortura fosse punibile anche quando fosse stata utilizzata per ottenere informazioni decisive per prevenire azioni terroristiche ritenute imminenti.

Se ad avere il braccio legato deve essere il soldato di uno stato in guerra, quante braccia legate dovrebbe avere il poliziotto di uno stato democratico retto da una Costituzione che pone al primo posto il riconoscimento (non la concessione) dei diritti della persona e della sua inviolabile dignità? Il braccio legato non rappresenta una mutilazione subìta, ma una limitazione consapevole per chi sa che il potere di usare la forza gli è stato concesso al solo fine di impedire il compimento di un reato o di portarlo a più gravi conseguenze.

Nello stesso istante in cui la persona da fermare o da sottoporre a misure restrittive non è più in condizioni di agire, diventa illegittimo anche il minimo utilizzo della forza nei suoi confronti. Le parole del sovrintendente di Verona citato nei giorni scorsi dal questore Massucci - purtroppo in forma anonima, insieme alla precisazione che si tratta di un poliziotto scomparso in un conflitto a fuoco in epoca imprecisata – e riprese da molti quotidiani, sono lapidarie e sufficienti: «Una volta messe le manette, anche il peggiore criminale è una persona da rispettare sempre».

Da rispettare soprattutto poiché in manette, cioè indifesa, fragile, affidata alla responsabilità dello Stato che da quel momento ha il dovere di proteggerla, non soltanto per la sua qualifica giuridica di presunto innocente, anche quando fosse stato arrestato in flagranza. E allora perché, nella stessa Verona, cinque poliziotti ora agli arresti domiciliari e altri 17 indagati tra i loro colleghi, hanno mostrato di non rispettare e forse di non conoscere affatto questi princìpi basilari, praticando la tortura e la violenza nei confronti di stranieri immigrati, disprezzati, irrisi e umiliati? E non nella concitazione di operazioni che abbiano comportato un momentaneo eccesso nell’uso legittimo della forza, per contrastare azioni violente in corso. No: dopo normali operazioni di routine, ogni volta per lungo tempo, e ripetutamente nell’arco di parecchi mesi (al punto che c’è da chiedersi se davvero fosse necessario consentire la reiterazione di atti violenti contro persone inermi, con possibili conseguenze permanenti o letali, anziché procedere immediatamente con l’arresto in flagranza. Evidentemente al fine di arricchire il quadro probatorio e il carattere non occasionale dei reati. Ma c’è da temere che si sia superato il limite consentito).

Un'immagine delle violenze in questura a Verona

Possiamo dunque accontentarci della brillante operazione di pulizia compiuta dagli stessi colleghi dei poliziotti arrestati, raccogliendo imponenti prove documentali audio-video, offerte al pubblico ministero e al Gip? Certo, possiamo considerarlo un passo avanti rispetto al passato, a casi simili come quelli avvenuti tre anni fa sia a Piacenza, alla Stazione Levante dei carabinieri (senza dimenticare che il processo d’appello, la scorsa estate e senza clamore, ha ridotto e perfino dimezzato le pene) sia nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Finito il tempo della narrazione delle poche “mele marce” inevitabili in qualsiasi istituzione (non più sostenibile e per la verità questa volta evitata a tutti i livelli) è ora la volta delle “brillanti operazioni di pulizia” condotte dall’interno?

Temo che, al di là del raccapriccio e della sincera sofferenza di molti appartenenti alla polizia, a cominciare dai vertici, si debba aprire una riflessione più ampia sulla concezione dei diritti della persona, dell’uso della forza, dell’ordine pubblico, diffusa tra gli appartenenti alle forze di polizia; e sugli insegnamenti impartiti agli allievi e rinnovati nell’esercizio quotidiano del comando. L’impotenza e la frustrazione di molti appartenenti ai corpi di polizia devono essere un sintomo per comprendere e prevenire, non per giustificare le degenerazioni e le derive di violenza gratuita. Per esempio quando molti di loro confidano: “Noi li arrestiamo, il giorno dopo li rimettono in libertà e ce li ritroviamo in strada a commettere reati e a spacciare”.

Le forze di polizia, a tutti i livelli, devono probabilmente fare un check profondo sui loro comportamenti, sulla formazione che impartiscono agli allievi, sull’incessante pro-memoria che i questori e i commissari dovrebbero rivolgere agli ispettori e, in giù, fino agli agenti. Sono i bullisti tardo-adolescenziali, presenti fra loro, forse in misura considerevole, a doversi sentire fuori luogo; invece capita il contrario: molti vedono e sanno, magari in cuor loro deplorano; però ritengono inutile denunciare, perché evidentemente pensano che chi dovrebbe sapere già sa, ma non agisce. E chi denuncia può correre rischi più gravi dei violenti indisturbati. A Verona, oltre ai 22 indagati, ci sono 23 colleghi non indagati, trasferiti e destinati a compiti d’ufficio, in attesa di valutare se siano stati testimoni consapevoli e silenti.

Fin qui le considerazioni coinvolgono i metodi e le responsabilità di comando interne alle forze di polizia. Ma c’è un discorso più ampio, che coinvolge la politica e le istituzioni. Le politiche della sicurezza e dell’ordine pubblico, nel rispetto dei princìpi costituzionali, sono decise dal parlamento, dai governi e in parte - si voglia o meno ammetterlo - anche dai sindacati (o dai rappresentanti) delle forze di polizia. Gli indirizzi si modificano e si consolidano (o si deteriorano) nell’arco di parecchi anni, non in corrispondenza di una legislatura o di un singolo governo. Ma se c’è un governo che deve affrontare con decisione questo problema è proprio quello in carica, a tutela della sua credibilità e per prevenire possibili e gravi fastidi.

L'ex presidente della Corte suprema israeliana Aharon Barak autore di una celebre lectio all'università di Tor Vergata

I fatti di 22 anni fa al G8 di Genova - un anno prima della celebre lezione romana di Aharon Barak e dell’immagine del braccio legato dietro la schiena - sono ricordati soprattutto per le violenze agli ospiti della scuola Diaz e per il ragazzo morto a piazza Alimonda. Maltrattamenti e violenze subirono in strada anche molti manifestanti pacifici, nonché molte persone fermate o arrestate, tra le quali anche gli autori di atti violenti di guerriglia urbana, condotte alla caserma di Bolzaneto (dove poi nella notte sarebbero arrivati anche i fermati della scuola Diaz) e lì affidate alla Polizia penitenziaria. La più importante sigla sindacale degli appartenenti al Corpo è notoriamente e legittimamente di destra. Il secondo governo Berlusconi era in carica da 40 giorni. La “penitenziaria” era orgogliosa di ricevere e ospitare nella sala operativa allestita nella caserma il vicepresidente del Consiglio Fini, che si fermò per qualche tempo, ignaro di quello che sarebbe accaduto e inconsapevole di quello che già stava accadendo a poca distanza da lui (e che la Corte europea dei diritti dell’uomo, in riferimento a sei casi specifici a lei sottoposti, quindici anni dopo definì come atti di tortura, condannando lo Stato italiano al risarcimento).

Ecco: i bulli e i violenti che si annidano nei corpi di polizia, a volte si sentono - del tutto abusivamente - legittimati da maggioranze di governo di destra, così come molti comunisti si illusero che la rivoluzione fosse alle porte solo perché il Pci stava per entrare (e neppure entrò) nelle stanze di governo (e chi non si illuse passò direttamente alla clandestinità e alle azioni terroriste). I fanatici, in genere, vengono giustamente delusi dalla parte alla quale credono di appartenere; ma sul piano politico possono procurare i danni maggiori proprio a quella parte. Ecco perché il governo Meloni farebbe bene a non sottovalutare il problema.