Provo a sintetizzare un piccolo punto di vista accademico, ma personale, sulla corretta argomentazione in merito all’astensionismo alle urne e, in generale, sulla classe politica. L’Articolo 33 della Costituzione - facile da ricordare per il sottoscritto in quanto corona un iter formativo accademico per chi si vuole dedicare alla professione e perché direttamente coinvolto per vari anni negli esami di abilitazione professionale degli Ingegneri - recita: «È prescritto un esame di Stato […] per l'abilitazione all'esercizio professionale».
Dunque lo Stato, fondatamente e per necessario rispetto degli italiani, garantisce a qualunque persona – nel rivolgersi ad un dentista, un notaio, un avvocato, un dottore commercialista, un ingegnere, un architetto, un dottore agronomo, un medico, … – che il professionista interpellato, anche qualora non già conosciuto di persona, abbia almeno avuto la sufficienza nella sua disciplina di competenza.
Da diversi anni gli Ordini professionali valorizzano ed interrogano i candidati anche sulla valenza deontologica della professione durante l’Esame di Stato stesso. Or dunque: possiamo avvalerci di professionisti più o meno brillanti, più o meno arguti, più o meno gradevoli nel dialogo, ma abbiamo una garanzia dallo Stato: sanno svolgere, almeno a livello basilare, la loro professione.
Tuttavia, come generico cittadino mi sento tradito dall’applicazione della Costituzione nel momento in cui ciò non viene attuato alla classe politica o, perlomeno, a determinati ruoli pubblici, classe che deve gestire nientemeno che lo Stato stesso.
Perché mai non dovremmo essere garantiti sul fatto che i politici, con determinati ruoli pubblici, conoscano la materia? È vero che c’è poca scienza in molte relazioni politico-sociali, è anche vero che la nostra società è arrivata nei decenni a valorizzare i diritti all’estremo, penalizzando non di rado i doveri; ma proprio questo è un caso di tale natura: il politico ha forse diritto di governare qualunque sia la sua estrazione o perché dispone di capitali da investire e non ha alcun dovere culturale?! Stiamo scherzando?
Allora, può andare bene che un partito (non ne ho in mente alcuno) nasca, viva, muoia, resusciti pure, con l’aggregazione più o meno filtrata e qualificata dei suoi componenti, qualunque sia la loro estrazione; tuttavia non può essere che assuma il ruolo di Ministro un membro di tale generico partito semplicemente sulla base di una scelta interna o di una (benvenuta) dote personale.
Non bastano le doti: occorre competenza, deontologia e dimostrata capacità di superare in modo organico e corretto delle difficoltà, così come si fa negli esami universitari e che un Esame di Stato sancisce.
Quindi: quando vedo il nome o il viso su un pannello pubblicitario di una persona che aspira ad in ruolo di responsabilità pubblica, come cittadino - e probabilmente per deformazione personale - mi attendo che questa persona conosca la materia. Hanno intervistato alcuni politici e neppure hanno mostrato di conoscere l’art 1. della Costituzione. Perché allora non dare voce a chi queste competenze le ha? Questo è un appello ai giornalisti, che di fatto hanno un potere altissimo nell’indirizzare l’opinione pubblica e nel scegliere anche chi intervistare.
Se così non accade mi sento tradito dall’applicazione della Costituzione stessa e capisco chi non vota perché reputa la rappresentanza non all’altezza del suo, piccolo che sia, voto. In assenza di filtri ufficiali, filtra chi gestisce il partito e chissà mai quali criteri usa.
Proposta: applicare l’art. 33 della Costituzione alla Classe politica, perlomeno ai ruoli chiave come quelli dei ministri, vice ministri, sotto segretari o ruoli ufficiali che siano, dando conseguentemente voce a chi ha superato un filtro oggettivo - seppure non omni-inclusivo - come l’Esame di Stato.
È un desiderio eccessivo?
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