1. I recenti tragici fatti di Bengasi e i loro effetti incendiari su tutta l’area nordafricana hanno riportato in primo piano il ruolo degli Stati Uniti nel mondo. Se n’era parlato poco alle conventions presidenziali, e chi ne aveva parlato - John McCain, Leon Panetta - aveva incontrato la cortese indifferenza dell’uditorio. Quest’anno la partita non si gioca sulla politica estera (come era ancora il caso nel 2008), ma sull’economia. Sarà lo stato dell’economia il 6 novembre che deciderà chi sarà il prossimo presidente degli Stati Uniti. Questo si diceva fino a pochi giorni fa.
I fatti di Bengasi riportano l’attenzione degli Stati Uniti e del mondo al ruolo che la nazione americana gioca sullo scacchiere internazionale.
In linea generale, lo stato attuale della politica estera americana è largamente definito dall’adozione della dottrina Obama, in luogo della dottrina Bush. La seconda prevedeva operazioni militari in grande stile per sradicare i regimi collusi con le organizzazioni terroristiche ostili agli Stati Uniti. La prima invece evita le spedizioni militari e si concentra sull’uso strategico dell’intelligence e l’impiego tattico delle forze speciali.
Se il simbolo della dottrina Bush è l’intervento ancora in corso in Afghanistan, il conflitto più lungo della storia americana, quello della dottrina Obama è il drone che appare all’improvviso e scompare nel nulla dopo aver colpito l’obiettivo.
Le due dottrine si incontrano in un punto, dolentissimo: il centro di detenzione di Guantanamo. Come Clint Eastwood ha ricordato alla convention repubblicana, Obama aveva promesso che, una volta eletto, l’avrebbe chiuso, ma non l’ha ancora fatto e non pare intenda più farlo.
Proviamo a partire da questa singolare coincidenza per porre la domanda cruciale riguardo alla politica estera americana: a che punto è la cosiddetta “Guerra globale al terrore”? In fondo è questa la domanda cui Obama dovrebbe rispondere, non solo di fronte agli avversari repubblicani che vorrebbero riportare il paese ai fasti della dottrina Bush (magari rivista al risparmio), ma di fronte al paese e al mondo intero.
2. Per capire come mai Obama non abbia chiuso Guantanamo occorre ricordare le ragioni per le quali fu aperta, chiarendo lo status giuridico dei prigionieri catturati nel corso della “Guerra globale al terrore”.
Essendo questa guerra un conflitto non circoscritto e non facilmente classificabile secondo i dettami del diritto internazionale, la detenzione a Guantanamo consentiva di evitare, da un lato, che i prigionieri cadessero sotto la giurisdizione delle corti civili americane, dall’altro che fossero sottoposti a quella sancita dal diritto internazionale. A tutti gli effetti Guantanamo era ed è un limbo giuridico in cui detenere, interrogare e processare nemici giurati della nazione americana, al di là e al di fuori delle tutele ordinarie concesse dagli Stati Uniti ai propri cittadini o ai cittadini in armi di stati belligeranti.
Il risultato di questo esperimento è cosa nota. Nel limbo di regole si sono compiuti atti di tortura fisica e morale che ben poco hanno a che vedere con la tutela dei diritti umani. Altrettanto esiguo è il numero di chi a Guantanamo ha potuto difendersi in modo adeguato e trovare giustizia se innocente. Molti dei 156 detenuti non dovrebbero trovarsi lì e nessuno pare sapere, a questo punto, come tirarli fuori. Ma quel che è peggio è che nel fare uso di un simile vuoto di norme giuridiche per difendere la nazione, gli Stati Uniti paiono negare gli stessi valori che intendono proteggere, valori che dichiarano universali e quindi, in linea di principio, applicabili a chiunque, anche ai propri nemici.
Ma allora perché sotto elezioni Obama non chiude Guantanamo, cogliendo almeno il plauso dell’ala più liberal dei democratici?
I motivi paiono essere sostanzialmente due. Il primo è che il Congresso a maggioranza repubblicana si è messo di traverso. Il secondo è che nessuno sembra volere che i detenuti di Guantanamo siano trasferiti sul suolo americano. Nessun membro del Congresso, nessun Governatore o Sindaco pare volerlo, e questo perché la cosa è particolarmente invisa alle loro constituencies, ai loro elettori. Qui le divisioni fra democratici e repubblicani si assottigliano fino a scomparire.
Quello che in questi anni Obama ha fatto per lenire il problema posto da Guantanamo è stato mettere in equilibrio il sistema di norme che lo regolano. Se non è ancora facile dire che cosa sia questa prigione extraterritoriale (una parentesi graffa posta fra diritto nazionale e internazionale) almeno certi eccessi dell’amministrazione precedente (leggi la tortura dei detenuti) sono stati attenuati, se non proprio eliminati.
Ma è solo questo il motivo che ha impedito a Obama di chiudere definitivamente Guantanamo? Pare di no. Guantanamo e spazi simili sono ancora luoghi necessari per combattere efficacemente il terrorismo del ventunesimo secolo.
La guerra al terrorismo continua.
3. È dal 2009 che l’amministrazione Obama evita la formula “Guerra globale al terrore”, che durante gli anni della presidenza Bush era diventata ufficiale con tanto di acronimo (GWOT, Global War on Teror) e medagliere per i reduci. Ciò non significa che la lotta intrapresa sia finita. Obama ha solo ristretto l’ambito del “terrore” alla sola al Qaeda. Peraltro, chiamare “guerra” la lotta contro al Qaeda era già concedere all’avversario una vittoria retorica, visto che l’obiettivo dei jihadisti era proprio quello di innescare una “guerra di civiltà”.
Se alle spedizioni militari Obama preferisce l’uso chirurgico di droni, questo non significa che l’intelligence non porti avanti operazioni antiterrorismo sul terreno: e infatti è proprio nell’evenienza tutt’altro che remota della cattura di sospetti terroristi che l’esistenza di spazi come Guantanamo diventa essenziale.
Chiudere questi spazi riaprirebbe il problema dello status giuridico dei prigionieri catturati nel tentativo di difendere gli Stati Uniti da nuovi attentati come quelli messi a segno l’11 settembre 2001.
Una parentesi graffa va dunque posta fra diritto nazionale e internazionale per poter combattere il terrorismo post-nazionale del ventunesimo secolo. Le tutele giuridiche offerte dalla nazione americana agli individui sospettati di aver commesso un crimine contraddicono l’esigenza di difesa da attacchi militari asimmetrici, e le tutele internazionali presuppongono che l’individuo catturato appartenga all’esercito di uno stato nazionale e che questa nazione abbia inoltrato una formale dichiarazione di guerra.
Da pragmatico par suo Obama ha cercato la soluzione del come attrezzare questi spazi nella razionalizzazione e regolamentazione dell’esistente, e finora la cosa pare aver dato i suoi frutti.
4. A che punto è dunque la “Guerra globale al terrore”? Ha cambiato nome ma non è cessata. È più chiaro oggi chi sia il nemico. E si è entrati in quella fase post-emergenziale che i giuristi chiamano “istituzionalizzazione”. Le misure prese dal 2001 in poi in fretta e furia e per necessità vengono vagliate a una a una e messe a norma il più possibile, senza però perdere di vista l’esigenza che le aveva generate.
In altre parole, la guerra dichiarata al terrorismo all’indomani dell’11 settembre va cronicizzandosi, si trasforma in una realtà spiacevole con cui dover fare i conti senza che vi sia all’orizzonte qualcosa di risolutivo capace di porvi termine. Come i fatti di questi giorni paiono dimostrare.
In questa fase il vero problema non è tanto - o solo - Guantanamo, ma l’uso antiterroristico dei droni, che porta alla firma del presidente la decisione di uccidere un sospetto senza regolare processo e in terra straniera. Problema ancora più acuto quando a morire sono individui sospetti che hanno la cittadinanza americana, cosa che è già accaduta tre volte. Di questo tema però non si parla nella campagna elettorale in corso, e questo probabilmente per due motivi speculari.
Ai repubblicani non conviene sollevare un tema che mette in luce la determinazione con cui Obama sta affrontando la questione terrorismo; ai democratici invece non conviene ricordare all’ala più liberal della propria compagine che Obama ha in taluni casi arrogato a sé un potere di vita o di morte riconosciuto in genere non ai rappresentanti eletti dal popolo bensì solo ai sovrani assoluti di stati dispotici.
Non molti hanno compianto la dipartita di Osama bin Laden, ma non pochi si sono chiesti su quali basi legali è avvenuta la sua uccisione.
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