Il 2014 sarà l’anno della svolta per l’Afghanistan. La missione Isaf (International Security and Assistance Force) chiuderà i battenti. La Nato passerà quindi a una presenza significativamente ridotta a fianco delle forze di Kabul. C’è chi dice che non ci troviamo di fronte al compimento di una exit strategy ma al fallimento dell'obiettivo strategico che l'intervento militare si era prefisso. Infatti, non si può certo dire la Nato e l’Isaf abbiano creato nel cuore dell’Asia centrale un eldorado. Tuttavia, è convinzione comune che non si potesse fare di meglio.
1. Tra il 21 e il 23 ottobre, il quartier generale dell’Alleanza atlantica a Bruxelles ha ospitato il vertice dei ministri della difesa degli Stati membri. L’evento ha confermato l’ottimismo che l’Occidente nutre nei confronti dei risultato dell’intervento in Afghanistan.
Il 20 dicembre 2001, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu emana la risoluzione 1386, con cui dà il via alla missione Isaf. A conduzione Nato dal 2003, l’operazione ha due obiettivi: dare supporto alle istituzioni afgane nel loro processo di ricostruzione politica e intervenire manu militari contro i cosiddetti insurgents, ovvero tutti i focolai di instabilità attivi nel Paese: talebani, jihadisti vicini ad al-Qaeda, signori della guerra, trafficanti di armi e oppio, oltreché clan e tribù da sempre in lotta contro qualsiasi governo costituito a Kabul. In questi dodici anni di presenza in Afghanistan, Isaf ha vissuto una lunga serie di alti e bassi. Soprattutto in termini di credibilità e popolarità. Presso le cancellerie occidentali, nel 2001, solo chi era pratico del Grande Gioco avrebbe potuto prevedere tempi così lunghi di permanenza e risultati tanto ibridi. C’è stato chi si è appellato alla storia, ai fallimenti dell’Impero britannico e dell’Urss: entrambe potenze militari micidiali umiliate dagli scalcagnati mujaheddin locali. D’altra parte l’intervento era fermamente voluto da tutta la Nato.
Oggi di Isaf resta un contingente militare di dimensioni ancora importanti. Non come anni fa però, in cui si erano superati i centomila uomini. A ogni modo, sono 80mila le unità plurinazionali dispiegate nel teatro afgano. È difficile dire quanto sia costato nel complesso l'intervento militare. Gli studi più recenti, infatti, non offrono uno scenario attendibile. Spesso perché le cifre sono di fonte statunitense e quindi aggregano i costi del conflitto afgano a quelli del conflitto iracheno. Siamo comunque oltre i 2mila miliardi di dollari.
In una visione d’insieme, il bilancio non è dei migliori. L’Afghanistan non è un Paese politicamente stabile e tanto meno sicuro. Proprio nei giorni in cui si è svolto il vertice di Bruxelles, presente il ministro della difesa afghano, Bismillah Khan Mohammadi, la commissione elettorale di Kabul (Iec) ha invalidato 16 dei 27 candidati al voto presidenziale del prossimo anno. Segno, questo, che buona parte della classe dirigente nazionale appare inadeguata a guidare il Paese. Sul fronte della sicurezza non si attenuano i casi di attacchi, da parte degli insurgents, alla popolazione civile e alle autorità. Da ricordare in particolare gli episodi di green on blue: combattenti nemici infiltrati nelle forze di polizia regolare, in grado di sabotare le strutture governative. In questi casi, è importante sottolineare come per i talebani & Co. il target prioritario non sia più il soldato Nato – visto comunque come invasore – bensì l’afgano che dell’Alleanza atlantica è amico. In questo senso, il conflitto in Afghanistan sta prendendo una deriva di guerra civile propriamente detta.
2. Mission accomplished or not? La missione della Nato in Afghanistan può dirsi compiuta? Gli occidentali smobilitano con successo e la coscienza pulita?
Forse queste non sono le domande corrette. Dovremmo infatti chiederci perché ce ne andiamo dall’Afghanistan ora. Perché riteniamo di aver speso e aiutato a sufficienza un governo che, oltre a quanto sta facendo, non è in grado di fare di più? Perché ci siamo resi conto che Kabul, se mai un giorno riuscisse ad arrivare a una vera pacificazione, lo farà solo con i suoi tempi? Il processo di democracy building, oggi, manca di quell’atteggiamento impositivo che era stato proprio dell’Amministrazione Bush. C’è chi può dire che la Casa Bianca pecchi di ignavia – si veda anche l’atteggiamento di Obama verso le primavere arabe. Tuttavia, osservando la parte piena del bicchiere si può A) ammettere che questo non è mezzo pieno; B) riconoscere che almeno non è del tutto vuoto; C) giustificarsi dietro al fatto che non si avesse a disposizione altra acqua.
Questo è un ragionamento condiviso sia dai politici Nato, sia dai tecnici, ovvero i militari. Ora, il fatto che ai primi stia a cuore ritirarsi dall’Afghanistan può avere implicazioni di carattere nazionale, elettorale, di budget e di tante altre buone motivazioni. Per chi indossa un’uniforme – e di conseguenza per l’intera struttura burocratica Nato – la questione è diversa. In teoria ritirarsi da un fronte aperto può essere avvilente. Nella pratica, il soldato dell’Alleanza atlantica è convinto che quello afgano sia un teatro operativo ormai smantellabile.
3. Del resto, è altrettanto improprio parlare di una exit strategy immediata. Primo perché nel 2014 cominceranno a essere smantellate alcune strutture. Sarà necessario però del tempo per sbaraccare tutto quello che Isaf e Nato hanno impiantato in questi dodici anni. Sarebbe ingenuo immaginare americani, inglesi e italiani che si chiudono i cancelli delle caserme alle spalle e se ne vanno con l’ultimo volo per Abu Dhabi. Secondo perché la Nato resta, con una presenza significativamente ridotta, a supporto delle forze di sicurezza afgane, affinché queste entrino in pieno possesso del loro territorio. L’operazione è chiamata Nato training mission: l’agenda dice che il soldato straniero dovrà restare sempre più in disparte e intervenire in maniera progressivamente minore rispetto alle attività del suo collega afgano. Una volta addestrato, quest’ultimo dovrà assumere una propria autonomia operativa, al punto che i militari afgani e quelli occidentali si dovranno sentire assolutamente pari grado in termini di competenza strategica e di intervento tattico. Da qui al 2020, all’Afghan National Army, all’Afghan Air Force e a alle forze speciali e ai commando saranno affiancati militari stranieri con funzioni di addestramento, consulenza e consiglio.
Tutto questo perché la Nato desidera restare un soggetto del grande gioco. Magari non più in forma prevalentemente militare. D’altra parte, non le conviene abbandonare l’economia e la politica afgane agli interessi di Cina, India, Iran, Russia e Pakistan; potenze (alcune nucleari) tradizionalmente interessate al Paese degli aquiloni.
Nella fattispecie italiana, il nostro ruolo non è da sottovalutare. E alla Nato lo sanno. Si ricordano bene dei 53 caduti che il nostro contingente ha lasciato sul terreno. Così come è per loro assodato che il nostro modo di fare peacekeeping è esemplare. Una lesson learnt che rientrerà nei capitoli a venire della dottrina atlantica. Al summit di Bruxelles, il ministro italiano della difesa, Mario Mauro, ha ricevuto gli apprezzamenti sia per quanto riguarda il dossier Afghanistan che sta per chiudersi, sia per le prossime sfide dell’Alleanza: cyber war e smart defence.
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