1. Da mesi ormai non passa giorno senza che giornali e telegiornali ripetano continuamente la parola "austerity": «la Merkel vuole imporre l'austerity a tutta Europa», «Hollande ha vinto perché si è ribellato all'austerity della Merkel», «l'austerity ci sta strangolando», «non è vero, di austerity non ce n'è abbastanza».

Dal modo in cui è impostato il dibattito, sospettiamo che molti si siano fatti l'idea che austerity sia sostanzialmente sinonimo di correzione dei conti pubblici fuori controllo, ma questo è largamente impreciso. Cerchiamo quindi di fare un po' di chiarezza: in questo articolo rifletteremo sul significato del termine in questione, e su quali misure possano essere correttamente definite di austerity da un punto di vista teorico. In un articolo gemello, invece, Marco Bollettino si occupa di mostrarci a livello pratico quanta austerity sia dato registrare realmente nelle politiche economiche dei Paesi maggiormente coinvolti dalla crisi.

2. Austerity rimanda etimologicamente a qualcosa di duro, aspro. In un non lontano passato, gli italiani hanno già conosciuto un periodo duro e aspro, all'insegna appunto dell'austerity, il biennio 1973-74: allora, questo termine fu impiegato per descrivere il razionamento dell'energia imposto dal governo per reagire allo shock petrolifero. Non si trattò quindi di qualcosa che agli amanti della libertà andasse particolarmente a genio, come tutte le privazioni imposte, tanto più se derivanti da cause politiche come erano quelle che avevano provocato l'aumento vertiginoso del prezzo del greggio.

Oggi, invece, l'austerity riguarda un po' tutto il mondo occidentale, dove l'intero dibattito politico-economico sembra ruotare attorno a quanta austerity sia opportuno applicare all'economia: la Germania è diventata l'alfiere dell'austerity, che essa cerca di far adottare dai partner europei spendaccioni come contropartita del sostegno alle loro economie, mentre nei Paesi Piigs (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia, Spagna) si è andato formando un vasto movimento d'opinione, con adesioni trasversali, di resistenza all'austerità, e in difesa di una spesa pubblica in deficit in funzione anticiclica di stampo keynesiano.

Ebbene, l'accezione in cui la parola austerity viene impiegata oggi è diversa da quella degli anni '70. Come detto, la tendenza è in realtà quella di fare un gran calderone, e far rientrare sotto la categoria onnicomprensiva di austerity tanto misure di riduzione della spesa pubblica, quanto misure di aumento delle entrate statali, ovvero incrementi della pressione fiscale.

Così, Monti viene dipinto come un nuovo campione dell'austerity, perché il tentativo di correzione dei conti pubblici italiani messo in atto dal suo governo consta di entrambi questi ordini di misure. Anzi, vi è una marcata prevalenza degli aumenti delle entrate rispetto alla diminuzione delle uscite.

3. Tuttavia, questa versione "insalata" del concetto di austerità non aiuta a formarsi un giudizio sulle politiche economiche che i governi stanno seguendo per fronteggiare la crisi. Infatti, dal punto di vista della teoria economica, provare a correggere i conti riducendo la spesa pubblica oppure, al contrario, aumentando le tasse sono due strade esattamente agli antipodi. L'una vede il problema nell'eccesso di interposizione statale nella vita economica e non ritiene ammissibile, per ragioni ideali prima ancora che pratiche, un'ulteriore dilatazione di tale intervento. L'altra non si pone questo problema e mira a tappare i buchi nel modo più semplice, ovvero non intaccando i privilegi consolidati dei politicamente ben connessi tax consumers, ma piuttosto aumentando il carico ai politicamente disorganizzati tax-payers.

Due ricette così antitetiche non riescono però a convivere sotto la stessa etichetta. È vero che, nella realtà, tutti i governi hanno adottato un mix di entrambe le ricette, ma concettualmente esse restano opposte.

4. Molto meglio, allora, quando si fa riferimento all'aumento di tassazione, specificare che in quel caso chi viene sottoposto a misure "dure e aspre" è il privato, e che la sua austerity è tutta un'altra cosa rispetto all'austerity dei governi. Meglio ancora sarebbe adottare decisamente termini diversi, riservando la parola austerity allo stato che si mette a dieta riducendo la spesa pubblica, e chiamando l'austerity del privato con il suo vero nome: aumento della tassazione, incremento della pressione fiscale che, tanto per fare numeri, arriva quasi al 70% nel Total Tax Rate italiano nel 2012.

Restituiamo quindi all'austerity un significato positivo: altro che luci spente e cene a lume di candela, altro che nuovi balzelli o aumenti delle aliquote. No, chiamiamo austerity la necessaria opera di riduzione del peso statale nell'economia, la fondamentale diminuzione delle prestazioni e dei beni e servizi da esso prodotti o erogati: riservare un periodo "duro e aspro" al leviatano statale, affamando le sue sempre crescenti brame, sembra infatti l'unica via in grado di aiutarci a salvare il salvabile delle nostre economie.

Questo perché ci sono ottime ragioni per sostenere che nel baratro siamo finiti proprio perché i governi hanno completamente negato l'austerity, spendendo e spandendo così da accumulare un debito che, secondo i mercati, non riusciranno più a restituire. Un po' di "austera" autodisciplina da parte loro, dunque, non guasterebbe. E ciò anche a beneficio di chi oggi non c'è ancora, ma porterà il peso di tutti i debiti che gli lasceremo in eredità, ovvero le generazioni future che oggi non possono ancora esprimere il proprio dissenso. Se potessero farlo, però, non dubitiamo che preferirebbero evitare di venire al mondo già con oltre 30.000 euro di debito, come accade oggi in Italia: ma per evitare che i 30.000 euro continuino a crescere, e anzi far sì che diminuiscano, l'unica via è proprio l'austerity.