Tristram Engelhardt è una originalissima figura di intellettuale e filosofo americano, con un percorso interiore davvero singolare. Autore di un libro sui fondamenti della bioetica, scritto nell’86, e uscito in Italia nel ’91 con il titolo un po’ ingannevole di “Manuale di bioetica”, egli è stato accolto e interpretato come un teorico libertario, un filosofo della morale applicata in campo sociale, in particolare alla medicina. Senonché, nel 1991, Engelhardt conosce un profondo sconvolgimento spirituale. Decide di pentirsi di una vita di “gravi peccati e profondo egoismo”, imputabili soprattutto alla presunzione, tipica dei filosofi, di padroneggiare la realtà con il solo uso della ragione. Abbandona così il cattolicesimo romano e si converte alla Chiesa cristiano-ortodossa. La sua successiva produzione saggistica ne risulta radicalmente rinnovata.

1. Il suo ultimo libro è uscito l’estate scorsa, prima nella traduzione italiana che in versione originale - altro fatto curioso - di nuovo con un titolo che è tutto un programma: “Dopo Dio – Morale e bioetica in un mondo laico” (Claudiana, 315 pagine). Per quanto scritto da un autore che si autodefinisce “fondamentalista”, et pour cause, questo volume risulta di particolare interesse per la cultura liberale, tenacemente impegnata di fronte alle nuove sfide imposte dai progressi della scienza e della medicina.

Viviamo in un mondo ormai post-cristiano, anzi edificato sulle rovine del cristianesimo, è il grido di dolore di Engelhardt. La rivoluzione francese, la rivoluzione bolscevica e da ultima l’Unione europea sono gli esempi di“Stati fondamentalisti laici”, con la differenza che la prima aveva almeno cercato di reintrodurre una sorta di neo-paganesimo, pur sempre di impronta religiosa; mentre l’ultima oggi è attivamente impegnata, alla stregua degli ex regimi comunisti, nella sistematica eliminazione di qualsiasi riferimento a Dio e alla religione dal discorso pubblico.

Le origini di questa secolarizzazione sono lontane, spiega l’autore, risalgono alla filosofia dei greci del V secolo e alla pretesa di individuare tramite la speculazione il vero significato dell’esistenza umana. Ma il cristianesimo del primo millennio aveva le sue radici a Gerusalemme, non ad Atene: “la teologia del cristianesimo originario non era filosofica”. La Chiesa comincia a sbagliare con S. Tommaso, che cerca un impossibile equilibrio di “fides et ratio”, aprendo la porta alle successive deviazioni. La religione cristiana occidentale si presenta così “affiancata dalla sua ancella/amante non più sottomessa: la filosofia”. Si arriva all’illuminismo e al vano tentativo di Kant di ripristinare una metafisica e una morale, ma sulla base di un postulato metodologicamente sbagliato. A causa dei “limiti radicali”della filosofia, il progetto etico occidentale fallisce proprio per il suo (irrealizzabile) tentativo di trovare nei diritti umani e nella pace i nuovi valori universali. Anche Hegel rifonda la morale, ma questa volta come “divorzio da Dio”: l’ateismo metodologico hegeliano vede nello Stato l’ingresso di Dio nel mondo e l’imposizione della morale attraverso le leggi e le politiche pubbliche.

2. Il disegno di surrogare Dio e la morale con lo Stato e la politica, è privo di fondamento e porta inevitabilmente al “declassamento e ridimensionamento della morale”. La morale laica, sostiene Engelhardt, non può essere “canonica” perché irriducibilmente plurale, ridotta cioè a un insieme di “stili di vita” inevitabilmente soggettivi e intercambiabili. Una morale laica sarebbe plausibile solo nella condizione del cosiddetto “Stato minimo”, cioè in una situazione nella quale lo Stato fosse legittimato ad agire solo con il permesso dei governati. In questo caso i cittadini, pur essendo “stranieri morali” l’uno rispetto all’altro, non si vedrebbero mai costretti ad agire contro i propri convincimenti e la propria coscienza. Ma questo Stato minimo, aggiunge maliziosamente l’autore, non esiste in nessuna parte del mondo. Nella realtà, esiste solo lo Stato “non minimo”, che Engelhardt chiama “socialdemocratico”. Assistiamo così al dilagare della cultura laica dominante, che è l’ideologia degli Stati fondamentalisti laici contemporanei. Questo processo ha conosciuto una fortissima accelerazione nel corso degli ultimi decenni: se la modernità ci aveva portato alla separazione dal cristianesimo, la post-modernità ci separa direttamente da Dio. Le sentenze della Corte suprema americana e della Cedu in materia di aborto, famiglia, riproduzione e libertà sessuale (nelle sue varie declinazioni) in questo senso sono paradigmatiche. “Un momento come questo non c’è mai stato prima, nella storia dell’umanità. La nostra è l’epoca del dopo Dio”.

Di conseguenza anche la bioetica, come la morale, è priva di fondamenti. C’è, invece, una “molteplicità di grappoli incompatibili di intuizioni sostenute da narrazioni differenti”, ognuna delle quali offre una spiegazione a sé stante. Ciò che viene spacciata per bioetica e che sembra funzionare egregiamente, non è altro che la politica pubblica di un’autorità statale legalmente riconosciuta, cioè un “forte programma politico-costituzionale socialdemocratico” (un’affermazione che avrebbe fatto la felicità di Hegel, rivelandosi per questa via la politica superiore alla morale). Intorno alla filosofia morale si sono create aspettative esagerate, che alcuni bioeticisti come Beauchamp e Childress fingono di superare, semplicemente affermando che “la bioetica laica può procedere senza prestare troppa attenzione alla teoria”. Molto più realisticamente, la morale e la bioetica della cultura laica dominante sono diventate la morale e la bioetica comuni. La morale comune viene spacciata per morale universale, ma è destinata però a collassare in una pluralità di morali in competizione fra loro, avverte Engelhardt: “la verità superiore della bioetica laica diventa una biopolitica laica”. I consulenti di bioetica infatti, nel campo dell’assistenza sanitaria, altro non sono che una sottospecie di avvocati, utili a dispensare indicazioni e consigli para-legali su ciò che è lecito e ciò che è vietato dalla legge.

3. E’ un fatto interessante e curioso, un paradosso tipico della filosofia, che la distinzione fra Stato minimo e Stato socialdemocratico (a tutela dei diritti dell’individuo e a indicazione dei limiti posti alla sfera d’azione della legge) venga richiamata da un pensatore animato da una visione così radicalmente teocentrica e rivelata della realtà. Per quanto palesemente inattuali, molte osservazioni di Engelhardt effettivamente sono suggestive e fanno riflettere. L’istintiva avversione liberale nei confronti dello Stato etico, di qualunque derivazione, non resta insensibile a queste sollecitazioni.

Tuttavia proprio l’assenza di una morale “canonica”, denunciata da Engelhardt, ben lungi dal rappresentare un limite, costituisce invece il vero punto di forza della cultura laico-liberale. Dal punto di vista dell’individuo, il pluralismo morale costituisce la garanzia di un equilibrio, volto a impedire il prevalere di un’etica totalizzante, forte del potere dell’autorità statuale. L’autore contesta Rawls, in riferimento alla sua tesi del “pluralismo ragionevole”. A noi sembra invece questa l’unica strada percorribile: una morale che necessariamente scaturisce dal contesto storico e sociale.

Le alternative proposte da Engelhardt non appaiono convincenti. Egli si scaglia contro il Concilio Vaticano II, colpevole di avere accelerato il processo di secolarizzazione culturale; contesta Giovanni Paolo II e Benedetto XVI per avere manifestato troppa fiducia nella filosofia e negli argomenti razionali, per essersi colpevolmente appellati ai filosofi alla ricerca di una sintesi di fede e ragione; manifesta vivo apprezzamento per il mondo maomettano, che alla fine del X secolo ha saputo respingere la minaccia filosofica insita nel pensiero aristotelico, prima che contaminasse l’Islam con gli stessi effetti devastanti poi verificatisi in Occidente; vagheggia infine un’alleanza fra cristiani fondamentalisti, ebrei ortodossi e maomettani, disposti a morire pur di non scendere a compromessi nel loro rapporto con Dio.

Dalla lettura di “Dopo Dio” si evince una conferma di fondo della superiorità – è sempre difficile pronunciare questa parola - dei sistemi liberali e costituzionali che reggono le democrazie odierne, delle quali la laicità è un presupposto necessario e fondante. Che la morale sia plurale, nel mondo contemporaneo, non è detto che sia una disgrazia.