Lunedì 22 ottobre è stata una brutta giornata per l’Italia. Il Tribunale dell’Aquila, infatti, ha condannato a sei anni di carcere, al pagamento di 7,8 milioni di euro di danni e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici i sette componenti della Commissione Grandi Rischi, ritenuti colpevoli, per quel che è dato comprendere, di non avere previsto il terremoto dell’Aquila del 6 aprile 2009. È stata una brutta giornata per una serie di ragioni, e proviamo a metterle in fila, chiarendo una serie di passaggi concettuali e operativi.

1. Il servizio di protezione civile per i rischi naturali (terremoti, alluvioni, ecc.) si fonda su conoscenze scientifiche, da un lato, e procedure operative, dall’altro. In altri termini, sulla base di previsioni formulate dagli scienziati (meteorologi, sismologi, virologi se parlassimo di epidemie, ecc.), alla protezione civile compete di allertare, prima, e guidare poi sul piano operativo, i soggetti (autorità locali, forze di polizia, esercito, ecc.) che operano sui territori investiti dal rischio, e che dovrebbero sapere già che cosa fare, in risposta a un determinato livello di allerta relativo a un rischio specifico. Vi è dunque una prima distinzione concettuale: l’analisi del rischio tocca agli scienziati, il livello di allerta viene stabilito dal servizio nazionale, le risposte concrete le decidono sulla base di procedure predefinite i soggetti che stanno sul territorio. Questo perché, evidentemente, se il rischio fosse, poniamo, quello di una esondazione del fiume Dora Baltea in Val d’Aosta, solo a livello locale, e non certo da Roma, si potrebbe intervenire tempestivamente per chiudere strade e ponti o evacuare zone abitate a rischio di esondazione. Concettualmente, la distinzione è chiara: la previsione è compito degli scienziati, la definizione del livello di allerta è compito della protezione civile nazionale, la traduzione dell’allerta in interventi concreti tocca alle autorità sul territorio. E così, va detto, funziona dappertutto nel mondo sviluppato.

2. Ma che cosa sono le “previsioni scientifiche” di cui si parla? Consistono, semplicemente, in attribuzioni di probabilità al verificarsi di eventi specifici, fondate in parte sull’osservazione della situazione sul terreno e in parte sull’analisi di serie storiche. In altri termini, non sono in nessun senso “profezie” o anticipazioni del futuro. Se un meteorologo dice che vi è il 90 per cento di probabilità di una alluvione disastrosa in Val d’Aosta nel pomeriggio del 15 di giugno e un sismologo dice che nello stesso pomeriggio del 15 di giugno vi è una probabilità del 2 per cento che una scossa sismica distruttiva colpisca il territorio di Faenza, e poi l’alluvione è semplicemente una piena del fiume non pericolosa e la scossa sismica invece arriva, nessuno dei due ha “sbagliato”, se per arrivare a quelle conclusioni ha utilizzato le conoscenze di cui disponeva allo stato dell’arte (e che, per inciso, nel caso della meteorologia sono assai più affidabili che per i terremoti).

Il primo punto concettuale è dunque questo: le attribuzioni di probabilità non sono profezie, non predicono che cosa avverrà, ma semplicemente quante probabilità vi sono che un evento (o più eventi, collocati su una scala di gravità/intensità) si verifichi. Sono invece i responsabili della protezione civile – e non gli scienziati – a dover scegliere quale tipologia di misure adottare.  Per fare un esempio internazionale, il Pacific Tsunami Warning Center, potenziato dopo il disastro del 2004, emette frequentemente (essendo l’area di riferimento altamente sismica) Tsunami Advisory, Watch o Warning (in ordine crescente di gravità) e li invia alle “autorità locali” dei tre continenti interessati. Sarà poi ciascuno a “tradurre” l’allerta in piani operativi, se e come lo ritiene necessario. Tornando al piano concettuale: la scienza non produce certezze, bensì attribuisce  gradi di probabilità. Potrà dispiacere ai giudici dell’Aquila, ma la scienza è questo, il resto, al massimo, è stregoneria.

3. Il secondo punto concettuale è che le società complesse, le open societies per dirla con Popper, quelle cioè che non si fondano più sull’interazione faccia a faccia dei loro componenti, per funzionare hanno bisogno di protocolli, di procedure definite in anticipo. Dunque il servizio di protezione civile deve fare esattamente questo: definire quali procedure adottare in relazione alla tipologia e al livello di rischio. Per minimizzare i danni di un terremoto (ma il discorso, evidentemente, vale allo stesso modo per un’alluvione o un’epidemia) devo sapere che cosa fare o non fare quando avverto la scossa; ma anche che cosa fare o non fare “prima” che l’evento si verifichi. Questo “prima” nel caso delle alluvioni significa che non si deve costruire nelle aree esondabili, nel caso dei terremoti che nelle zone sismiche occorre costruire seguendo particolari criteri. All’Aquila, dichiarata da tempo (e sulla base di dati storici) zona sismica, sono crollati edifici quali la Casa dello Studente o l’Ospedale san Salvatore che avevano meno di quarant’anni… Il problema, in altre parole, non è in questo tipo di situazioni “impedire” che il terremoto o l’eruzione vulcanica o l’alluvione si verifichi, bensì ridurre al minimo i danni a persone e cose, quando accade, poiché l’unica cosa che sappiamo (e questa sì, ce la dice la scienza) è che prima o poi accadrà.

A leggerlo, il verbale della concitata riunione della Commissione Grandi Rischi convocata dal capo della Protezione Civile Guido Bertolaso il 31 aprile 2009, ossia una settimana prima del terremoto, dice proprio questo: “l’unica difesa dal terremoto consiste nel rafforzare le costruzioni … e … migliorare il livello di preparazione a gestire un’emergenza sismica”. Pare poi che quella riunione e le sue conclusioni fossero state in qualche modo strumentalizzate al fine di “rassicurare” la popolazione messa in allarme dalle “profezie” di un tal Gianfranco Giuliani su un terremoto imminente:  basta peraltro leggere la ricostruzione della vicenda fatta da Science per capire la differenza fra profezia e previsione scientifica: non è scienza ciò che non risulta ripetibile né verificabile, e la scienza serve a informare (e, si spera, ad agire in termini coerenti rispetto all’informazione ricevuta), non a rassicurare o, viceversa, ad allarmare inutilmente.

4. Perché, allora, il 22 ottobre è stata una brutta giornata per l’Italia? Perché, semplicemente, come paese abbiamo dimostrato di non sapere che cosa è la scienza, di non sapere come si risponde ai rischi naturali, di non avere le capacità organizzative – e gli strumenti intellettuali, e le procedure adeguate – per far fronte ai pericoli che corriamo. E dunque, coerentemente, non siamo neppure in grado di giudicare, dopo, le responsabilità connesse agli eventi. Responsabilità che rispetto a quanto accaduto all’Aquila indubbiamente esistono, ma non sono “puntuali” , legate cioè a quel che si è fatto in un momento specifico, ossia il 31 di aprile del 2009; sono invece, ma qui il discorso è lungo, le responsabilità di chi doveva costruire in un certo modo e non lo ha fatto, di chi doveva verificare come si era costruito e non ha verificato, di chi doveva organizzare esercitazioni di protezione civile e non le ha organizzate, eccetera, eccetera… In sostanza, le autorità pubbliche prima hanno sbagliato consentendo che all’Aquila si costruisse come non si doveva costruire (e forse anche i privati cittadini non hanno percepito adeguatamente il rischio), poi di fronte a uno sciame sismico che continuava a danneggiare costruzioni fragili hanno deciso una “operazione di immagine” per rassicurare una popolazione spaventata dalle lesioni che colpivano gli edifici e dalle profezie di Giuliani, abbondantemente riprese dai media locali.

Rispetto a tutto questo, il processo poteva anche avere una sua utilità se, come a volte avviene in casi del genere, fosse stato usato per ricostruire pubblicamente la vicenda, interiorizzarne gli insegnamenti amari e, si spera, procedere diversamente in futuro. Invece è andata com’è andata.

“Ambasciator non porta pena”, si diceva un tempo, riassumendo così un altro principio fondamentale della convivenza civile: se sono in contrasto d’interessi, o in conflitto, o addirittura in guerra con qualcuno, devo comunque mantenere un canale di comunicazione con il nemico. Non è che uccido chi mi dà una cattiva notizia. Di fronte al rischio di calamità naturali, e al mutamento climatico in corso, abbiamo bisogno di più scienza, più informazione, più discussione pubblica informata: non di mandare al rogo l’ambasciatore che porta un messaggio sgradito o, come pure si faceva, lo stregone che ha sbagliato profezia, o – come in questo caso – lo scienziato che fa semplicemente il suo mestiere.