Ancora recentemente è tornata alla ribalta della stampa nostrana la discussione sugli F-35 a causa di problemi tecnici riscontrati durante i test. Questa tematica compare ciclicamente nel dibattito pubblico italiano, ma raramente è stata affrontata con serietà come dovrebbe essere fatto per ogni decisione importante a livello politico ed economico.
1. Il progetto F-35 si inserisce all’interno di un piano di rinnovamento dell’aviazione militare italiana che necessita fortemente di nuovi mezzi per due ragioni. Primo, molti dei velivoli attualmente in dotazione sono ormai vecchi, ad esempio il Tornado entrò in servizio nel 1979 e l’Amx dieci anni più tardi, e sono quindi aerei con tecnologia superata e con molti anni di servizio alle spalle (sfido chiunque a guidare ancora una macchina di più di 25 anni, se non per parate storiche o simili). Secondo, oltre a essere in servizio da molti anni, questi velivoli hanno operato in diversi teatri (dalla Guerra del Golfo, 1991, all’Afghanistan) accumulando centinaia di ore di volo operativo. Non fare investimenti in questo settore significa rimanere, nel medio termine, senza un’aviazione, ovvero non investire oggi significa doverlo fare con costi maggiori in futuro.
Sempre rimanendo nell’ambito delle spese ci sono altre riflessioni da fare. La prima è che l’F-35 al momento non è un aereo in produzione, ma un progetto, e quindi da un lato è normale che si verifichino problemi tecnici - i prototipi sviluppati fino ad ora servono proprio per scoprirli prima che il mezzo entri in produzione - e che i costi, purtroppo, aumentino (circa il 60% in più rispetto a quanto ipotizzato nel 1998, quando si approvò il progetto). Un’altra riflessione riguarda una tematica cara a certa sinistra italiana “tagliamo gli F-35 perché così risparmiamo sulla difesa e sulle spese pubbliche e ciò è fondamentale in un periodo di crisi economica”. Tutto questo è assolutamente falso. La crisi economica in Italia non è certo dettata dalla spesa per la Difesa visto che il nostro Paese spende circa l’1,30% del PIL per la difesa (21,340 miliardi di euro), una percentuale tra le più basse in Europa, e in costante diminuzione dal 2008 (http://www.internazionale.it/news/economia/2014/02/14/come-cambiata-la-spesa-militare-dal-2008-a-oggi-in-un-grafico/).
È certamente doveroso in questa congiuntura così problematica chiedersi se sia possibile risparmiare sulla Difesa, ma bisogna ragionare sul problema e non farsi guidare da proclami elettorali o ideologici. Per prima cosa bisogna ricordare che i Carabinieri dipendono dal Ministero della Difesa per cui i tagli alla Difesa interessano anche loro e di conseguenza la nostra sicurezza quotidiana. Inoltre, il taglio non dovrebbe essere fatto sulle spese dedicate alla ricerca e innovazione (come in questo momento è l’F-35), bensì su quelle del personale che rappresentano il 70% circa della spesa complessiva, ovvero la Difesa in Italia spende più della metà del suo budget solo per pagare gli stipendi. È su quel 70% di spese che bisogna ragionare, tagliando le “poltrone” in eccesso e tornando invece a investire su assunzioni di qualità e sulla ricerca (a livello tecnologico certamente, ma anche e sopratutto teorico e analitico con investimenti seri e vere partenership con le Università in modo da creare ufficiali e analisti in grado di affrontare le diverse situazioni).
Va inoltre detto che dalle spese per la difesa non ci si può aspettare un ritorno immediato dell’investimento, poiché, come per la scuola, esso è sul lungo periodo. Senza dimenticare che per ciò che riguarda la Difesa, investire quando ce ne sarà la necessità significa ad esempio essere coinvolti in un conflitto senza avere le armi per difendersi e quindi farsi trovare completamente impreparati. Infine, uscire dal progetto F-35, come spesso viene proposto, non porterebbe a risparmi sulla spesa bensì a perdite. Da un lato, infatti, si getterebbero alle ortiche 20 anni circa di investimenti in ricerca e sviluppo, dall’altro si perderebbe la possibilità di far lavorare, come il progetto prevede, lo stabilimento di Cameri, dove verranno assemblati alcuni componenti, e che così sarà un’eccellenza, visto che sarebbe l’unica linea di assemblaggio e manutenzione fuori dagli Stati Uniti.
2. Quelle sopra esposte sono alcune delle riflessioni più contingenti sul progetto F-35, ma tre grandi tematiche vanno prese in considerazione per valutarlo seriamente. Per prima cosa oggi si parla di operazioni congiunte con gli alleati, si parla di Europa unita ma si dimentica che quei concetti sono intrinsecamente legati a quelli di sicurezza collettiva: la sicurezza di cui godiamo dipende da un investimento comune di tutti gli attori. Se noi decidiamo di non partecipare più, non solo miniamo la nostra sicurezza, ma anche quella complessiva dei nostri alleati. Infatti, un punto a favore dell’F-35 è certamente la sua interoperabilità, ovvero la capacità di operare congiuntamente con i nostri alleati. Altri mezzi similari e già disponibili sul mercato (come ad esempio il Rafale francese) rischiano di non avere quelle stesse caratteristiche, portando quindi a costi aggiuntivi per raggiungere il livello richiesto.
Secondariamente, l’F-35 è solo uno strumento militare, che come tale ubbidisce alla logica impostagli dalla politica; è però indubbio che il nostro Paese abbia un serio problema su questa tematica affrontata con faciloneria e sull’onda emotiva del momento. L’ignoranza che domina i politici italiani sul tema della politica estera e di difesa, è tristemente nota: l’intervista del Ministro della Difesa Roberta Pinotti del marzo scorso alle Invasioni Barbariche della Bignardi è forse l’ultimo esempio. In quel contesto il progetto F-35 veniva giustificato perché, a parere del Ministro, servirebbe a difenderci da un attacco missilistico. Ovviamente un caccia multiruolo può compiere svariate operazioni tattiche ma non è certo un intercettore di missili, al massimo potrà colpire in un secondo momento le postazioni di lancio. La politica nostrana, se volesse veramente affrontare il problema degli F-35, dovrebbe prima di tutto chiedersi quale ruolo l’Italia deve ritagliarsi sullo scacchiere internazionale. Le nostre Forze Armate sono state impegnate e si sono anche distinte per professionalità in svariati teatri e operazioni, vogliamo continuare su questa via? Oppure vogliamo, con la scusa del risparmiare, lasciare l’esercito nelle caserme, se non smantellarlo del tutto? Vogliamo una forza di intervento rapida per risolvere “piccole” contingenze, oppure vogliamo uno strumento più ampio in grado di farci diventare un attore importante a livello di politica regionale all’interno del Mediterraneo? In base a quegli obiettivi si può poi decidere su quali sistemi d’arma puntare e su come impiegarli. Secondo le esperienze belliche fin qui maturate dall’Italia, l’F-35 potrebbe far valere, tra le altre, le sue capacità di supporto aereo ravvicinato, per cui sarebbe uno strumento utile per la protezione delle nostre truppe a terra impegnate in teatri “caldi”. Si potrebbe quindi discutere se piuttosto che l’F-35, che presenta diversi limiti per quel ruolo, non fosse meglio acquisire altre e più economiche tipologie di aereo: l’A-10 americano, per esempio, è vecchio ma si è comportato egregiamente, anche se il Pentagono è deciso a mandarlo in pensione; oppure utilizzare aerei ad elica che grazie alla minore velocità sono più efficaci nel ruolo di appoggio alle truppe a terra come ad esempio il brasiliano Super Tucano o l’americano Texan II. Così facendo però all’Italia verrebbe meno la capacità di superiorità aerea.
3. Infine, bisogna prendere in considerazione gli scenari politici e bellici che possiamo immaginare per il futuro. La guerra non è scomparsa dalle relazioni internazionali, che da sempre si svolgono sotto la sua minaccia, anche se pare che in Italia e in Europa ce ne sia dimenticati. Certo è che oggi la guerra ha forme e caratteristiche diverse dal passato e ciò deve essere parte integrante di una riflessione sui sistemi d’arma da adottare. Presumibilmente, in futuro, i conflitti saranno condotti da forze non statuali e quindi con una ridotta capacità di fuoco (ma non per questo ininfluente o irrilevante a livello tattico), molto mobili sul territorio, capaci di adattarsi rapidamente e utilizzare a loro vantaggio un alto tasso di inventiva per sfruttare ogni singola debolezza del nemico. Si combatterà sempre più in città con l’ovvia conseguenza che la tematica estremamente delicata dei civili rimarrà centrale. Questo è con ogni probabilità lo scenario futuro dei conflitti e in tale scenario andrebbe inserito l’F-35: è lo strumento giusto? Serve per la politica estera italiana? Queste sono le domande che ci si dovrebbe porre. Il Mediterraneo è letteralmente in fiamme a causa delle guerre civili in Libia, Siria e Iraq, del perdurante conflitto israelo-palestinese, dell’instabilità del Libano e dell’Egitto; in tali contesti l’F-35 potrebbe non essere uno strumento bellico così utile ed efficace, ma è un mezzo tecnologicamente avanzato per affrontare minacce più tradizionali che non si possono escludere a priori (come tra l’altro il nuovo dinamismo russo evidenzia). Infine, tagliare il progetto perché non si prevedono queste ultime tipologie di minacce potrebbe essere una scelta politica coraggiosa e in linea con alcuni scenari politici internazionali, ma allo stesso tempo bisognerebbe riallocare quelle risorse verso mezzi e strumenti militari più consoni: nuove reclute, nuovo addestramento, nuovi mezzi di terra, droni.
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