All'indomani del giuramento che inaugura il secondo mandato presidenziale di Barack Hussein Obama mi permetto due considerazioni: la prima riguarda l'ufficio della Presidenza in quanto tale, la seconda soprattutto il presidente in questione e ciò che lo attende al secondo mandato.

1. Ciò che rende democratica la democrazia liberale è la normalità del cambiamento. Prima dell'avvento di questo regime politico, il cambiamento al vertice avveniva solo per successione dinastica, mediazione oligarchica, o per atto violento. Non vi erano quindi norme a guidare il cambiamento che poggiassero sul consenso popolare. Nel 1800, con il passaggio di potere da John Adams, secondo presidente degli Stati Uniti per un solo mandato, a Thomas Jefferson, terzo presidente per due mandati, abbiamo il primo caso nella storia di libere elezioni che determinano un cambio di governo al vertice, sia pure ancora in situazione di suffragio relativamente ristretto. Ogni vittoria è anche una sconfitta, ed è sulla concessione della vittoria che si basa la democrazia liberale, in primis quella americana che sta funzionando ininterrottamente su questo principio da più di due secoli.

Questo non equivale a dire che il passaggio sia semplice o indolore. John Adams concesse sì la vittoria a Jefferson, ma i due non si parlarono per vent'anni dopo una campagna al vetriolo, in cui furono persino messi in campo pettegolezzi (fondati) che volevano Jefferson l'amante di una delle sue schiave. Per vendicarsi Adams inaugurò un'altra delle tradizioni politiche americane, i cosiddetti midnight appointments, ossia gli incarichi conferiti all'ultima ora per mettere i bastoni fra le ruote al vincitore. È a una di queste nomine dell'ultimo minuto che si deve una delle meraviglie, anzi forse "la" meraviglia del sistema americano: la revisione costituzionale delle leggi promulgate. Incaricando John Marshall come Chief Justice alla Corte Suprema, Adams sapeva bene di mettere un osso duro nel posto giusto. Grazie alla sentenza Marbury vs. Madison, nel 1803 passò il principio che più ha plasmato la storia americana, ossia che il potere esecutivo e il potere legislativo non sono al di sopra della Costituzione e che ogni loro atto deve rispettarla in pieno. È grazie a questo principio che si è ottenuto il bilanciamento dei poteri che ha attraversato indenne la Guerra di Secessione e che negli anni Sessanta del secolo scorso ha consentito alla Corte Warren di aprire la stagione dei diritti civili senza la quale la stessa presidenza Obama sarebbe stata impensabile.

Concedendo la vittoria al presidente uscente, Mitt Romney perpetua il meccanismo per cui il potere passa da una amministrazione all'altra senza che vi sia quella delegittimazione dell'avversario che aprirebbe le porte al malfunzionamento del sistema di governo o, nel peggiore dei casi, alla guerra civile. È per questo che ogni cerimonia inaugurale deve qualcosa allo sconfitto. E veniamo alla seconda considerazione che intendevo svolgere.

2. Era dal 1997 che un candidato sconfitto alle elezioni presidenziali non partecipava alla cerimonia inaugurale. Mitt Romney era in California con la famiglia e ha dichiarato a un reporter della NBC che dubitava persino di guardare la cerimonia in televisione.

Evidentemente concedere la vittoria non è stato facile per Romney. Ma il suo rifiuto di essere presente alla cerimonia assume un certo significato visto poi quanto è accaduto durante la cerimonia stessa. Dopo aver giurato sulla Bibbia che fu del reverendo Martin Luther King posta nelle mani di Sonia Sotomayor, il primo justice della Corte Suprema di origini portoricane, e prima di ascoltare i versi del poeta Richard Blanco, ispanico e dichiaratamente omosessuale, Obama ha delineato una presidenza a tutto tondo democratica e liberal, rappresentativa dei valori di ogni minoranza tranne quella repubblicana e ha persino pronunciato a viso aperto la parola «gay». Per qualche tempo, INFATTI, Obama si era limitato ad alludere ai diritti omosessuali per via obliqua facendo pensare che si sarebbe fermato agli eufemismi. Di recente, invece, ha apertamente dichiarato il suo appoggio a una causa che vede il paese diviso su rigide linee ideologiche, pressoché coincidenti con i due maggiori schieramenti politici.

Chi non avesse seguito attentamente il corso del primo mandato di Obama potrebbe pensare a uno sconsiderato quanto arrogante assalto da parte del presidente, che dovrebbe rappresentare tutto il paese, all'opposizione repubblicana. Non c'era cosa nel suo discorso inaugurale che non fosse capace d'irritarla. Ma chi ha seguito quanto è accaduto negli scorsi quattro anni sa che se di attacco si tratta, non è un attacco gratuito, bensì il risultato di quatto anni passati a cercare un compromesso con l'altra parte. Bisogna infatti dare atto a Obama di aver speso l'intero primo mandato a cercare di mediare fra opposizione e maggioranza. Lo ha fatto quando aveva dalla sua entrambe le camere e ha continuato a farlo quando ha perso la maggioranza al senato. L'intento di pervenire a un compromesso con l'opposizione era forse il punto più qualificante della sua piattaforma iniziale, il fulcro del suo primo discorso inaugurale. Ma non ha funzionato. I repubblicani (e alcuni indipendenti) dicono che la colpa è di Obama. Il leader democratico sarebbe troppo rigido nella condotta dei negoziati necessari alla ricerca di un compromesso. I democratici, dal canto loro, accusano i repubblicani di condurre un'opposizione pregiudiziale e distruttiva, come sarebbe accaduto durante la crisi del cosiddetto fiscal cliff, il "dirupo fiscale" che ha rischiato di portare il paese verso una nuova recessione.

3. La verità come sempre sta nel mezzo, ed è tristissima perché ormai incombe come una cappa non solo sulla politica americana ma su quella di quasi tutti i paesi avanzati. Negli ultimi decenni pare aver preso piede una "tecnica" politica che per massimizzare i risultati alle urne usa l'intero periodo legislativo come ciclo elettorale. Mentre i cicli del passato duravano lo spazio di una campagna elettorale, oggi il ciclo è esteso a tutto l'anno, 24 ore al giorno, sette giorni la settimana.

L'industrializzazione mediatica dell'odio politico, che vede nell'avversario un nemico da annichilire, sta riducendo all'assurdo l'idea stessa che il ricambio al vertice sia un qualcosa di normale e di auspicabile in democrazia. Gli opposti schieramenti vanno radicalizzandosi e al centro va aprendosi una voragine che non può più essere colmata con lo spirito di mediazione. Non vi è spazio d'intesa fra le posizioni dell'ortodossia religiosa cattolica e conservatrice rappresentate da Romney e i valori di tolleranza e massima apertura esibiti da Obama durante la cerimonia inaugurale. Vi è solo la prospettiva di altri quattro anni di muro contro muro che terminerà solo con le prossime elezioni. E quattro anni passano presto. Perché perder tempo a mediare con l'avversario quando alle elezioni paga di più il muro contro muro?

Di microsondaggio in microsondaggio, di focus group in focus group, la battaglia repubblicana continua ad nauseam nella speranza che l'avversario faccia un passo falso; anche se quel passo falso dovesse causare una nuova recessione o far regredire il paese ai tempi in cui persone come Obama sapevano stare al mondo. Non è forse mai esistita una età dell'oro in cui il processo democratico abbia davvero funzionato secondo i disegni settecenteschi, e cioè secondo l'idea che una volta determinato chi dovesse governare, i governati tutti se ne sarebbero sentiti rappresentati. Ma per un liberale rimane una meta normativa imprescindibile, pena il ritorno della cooptazione oligarchica o della violenza pura delle rivoluzioni politiche.

Guardando alle vicende americane dal punto di vista europeo, l'Europa ha tutto da perdere dalla paralisi politica di un paese la cui economia è ancora la maggiore del pianeta. Se il discorso sullo stato dell'unione in programma il prossimo 12 febbraio dovesse confermare una svolta a sinistra di Obama, il muro contro muro che ne uscirebbe potrebbe paralizzare l'azione del governo americano proprio nel campo delle scelte economiche, generando ulteriore instabilità ed incertezza.