In questi giorni sono balzati agli onori delle cronache due fatti tra loro lontanissimi, ma che forse si possono ricollegare ad una lettura comune. Il primo è il referendum che si terrà il prossimo 28 ottobre a Cortina d'Ampezzo per la scelta tra il restare nella provincia di Belluno e l'unirsi a quella di Bolzano, e la piccola ma significativa campagna elettorale che in quel comune di montagna si sta svolgendo; il secondo è la sentenza del giudice tedesco (per la verità emessa più di un anno fa) che riduce la pena ad uno stupratore di origini sarde, adducendo motivazioni "culturali", e cioè che si deve "tenere conto delle particolari impronte culturali ed etniche dell'imputato". Viviamo in tempi identitari, ed entrambi gli avvenimenti solleticano certi temi del discorso comune, che è molto cambiato rispetto a quello di trenta o quarant'anni fa. Ora si parla di identità culturali e religiose, di differenza di civiltà, di lingua o etnia comune, si cercano segni e tratti rivelatori di un'origine, di precise radici storiche. Domande assillanti che chiedono risposte. E' bello e nobile tutto ciò: soprattutto, è inevitabile. Nella seconda parte del Novecento si era tentato di cancellare ogni riferimento alle identità etniche, linguistiche, culturali, anche a causa dei disastri provocati dal nazionalismo violento e dal nazifascismo. Si preferiva inseguire un sogno, quello della "cittadinanza mondiale", dell'abbattimento di ogni linea di divisione tradizionale degli uomini, della neutralità e indifferenza dell'individuo verso il suo passato. Questo sogno è fallito. Questa proposta ideologica è del tutto superata dal corso degli eventi. Le domande antiche, che avevano accompagnato la storia dell'uomo, le domande sulle "radici", le tradizioni, la provenienza, tornano a bussare (con enfasi sempre maggiore dopo l'11 settembre). E ci si aggrappa con forza alla propria identità. C'è però un grave limite in questa operazione di risignificazione. Ciascuno, alla domanda "che cosa sono io?" risponde pescando arbitrariamente tra un ventaglio di possibili risposte, tutte valide. "Sono un veneto", "sono un padano", "sono un lavoratore precario", "sono un cristiano", "sono un occidentale". L'identità non è, insomma, un attributo che ci è consegnato con la nascita e che al massimo possiamo enfatizzare o nascondere. E' invece il prodotto di una scelta disinvolta, di un'operazione artificiale di creazione e sovrapposizione. Che talvolta è compiuta da qualcuno su qualcun altro, contro la volontà di colui che viene "etichettato", per trovare in fretta risposte semplificatrici a domande troppo complesse. Si veda il caso di Cortina. Una forte spinta all'integrazione con i ladini dell'Alto Adige/Südtirol è all'origine della richiesta di indire il referendum. Una certa parte dei cortinesi è infatti convinta della propria fratellanza culturale con i ladini che abitano al di là del confine di regione, della propria appartenenza ad un gruppo etno-linguistico distinto e distante da quello veneto. Si cerca nella storia la ragione di questa appartenenza, e la si trova nei confini (dal 1511 al 1918 il paese è incorporato ai domini asburgici), nella parlata simile a quella degli abitanti delle vallate attigue, nelle usanze comuni. Ma qualcuno risponde: "io mi sento più vicino a Venezia". Qualcuno, pur riconoscendosi come parlante un dialetto che rientra nel gruppo delle parlate ladine, sente maggiore la prossimità col Veneto. Qualcuno risponde: a casa mia si parlava in dialetto ma io mi sento innanzitutto Italiano. Qualcuno (pochi) dice: io mi sento cittadino europeo. Qualcuno infine risponde: io a Cortina ci abito soltanto da vent'anni ma mi sento cortinese e basta, senza ulteriori specificazioni. La variabilità e fragilità del discorso identitario si rivela chiaramente: alla stessa domanda cento individui rispondono in cento modi diversi, e tutti (o quasi) in qualche modo legittimi e ragionevoli. Ecco che allora i promotori del referendum non esitano a stigmatizzare il "nazionalismo" arcigno di coloro che fanno un discorso "patriottico", cioè a favore dell'Italia e del Veneto: ma in fondo anch'essi obbediscono al medesimo meccanismo di "riscoperta" arbitraria e autoreferenziale. Si veda poi la sentenza tedesca. Qui siamo al paradosso: qualcuno, in una città della bassa Sassonia, si improvvisa profondo conoscitore della realtà culturale sarda, e con il consueto timore di scalfire le "identità altrui" decide un sostanzioso sconto di pena in nome del fatto che l'appartenenza ad una cultura tradizionale e retrograda può determinare conseguenze nei comportamenti del singolo. Salvo però poi mostrarsi del tutto estraneo alla conoscenza della cultura sarda di oggi e di ieri. Non solo quindi è lecito chiedersi se la "cultura di origine" di una persona sia in fondo un elemento da considerare per valutare le sue azioni, ma ancor prima ci si trova ad interrogarsi su quale sia questa cultura. Finendo col dare risposte scorrette. Per una volta siamo dall'altra parte della barricata: abituati a moderare il nostro scandalo verso le violenze aberranti compiute sul corpo delle donne in certe aree del mondo in nome della diversità culturale, dell'ingiudicabilità delle culture altrui, ora siamo coloro che subiscono questi giudizi imprecisi. Gli stessi commentatori che invitavano a sospendere il giudizio sul velo integrale o addirittura sulla mutilazione genitale femminile ora si ribellano indignati alla sentenza tedesca sostenendo che la violenza è sempre violenza e lo stupro non è mai, nemmeno parzialmente, giustificabile. Questo è il corto circuito logico in cui ci troviamo. I nostri tempi ci chiedono risposte nette, semplici, immediate. La realtà è contraddittoria, complessa, a volte assurda. Trovare una via mediana tra le due condizioni, e agire di conseguenza, sembra talvolta quasi impossibile. |
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