Quanto “costa” la cultura? Intervenendo da Fabio Fazio, il neo-Presidente del Consiglio Enrico Letta ha dichiarato che si dimetterà se dovrà fare tagli alla cultura, alla scuola, o alla ricerca. È un buon punto di partenza per un governo che succede a una serie di esecutivi dove i tagli alla cultura e all’istruzione sono stati pesanti quanto lineari.
Certo, si dirà, in una crisi senza precedenti è prioritario tutelare la sanità, i livelli essenziali di assistenza, le Asl, piuttosto che altri capitoli di spesa. Ma non c’è dubbio che, di tutti i settori, quello della cultura è uno di quelli che già pesano meno, al netto delle sue infinite inefficienze. Tagliare i fondi a questo settore non aiuta un granché.
Da una parte c’è il mondo universitario, riluttante ad applicare anche in Italia una politica di tasse universitarie (un po’) più alte per chi ha di più (e merita di meno), come avviene nel resto dei paesi occidentali. Un’impostazione che nasce con un criterio vagamente “di sinistra”, ma che finisce per far pagare tasse calmierate a un corpo studentesco formato per la maggior parte dei figli di chi potrebbe permettersi di pagare molto di più. I risultati, specie negli atenei di maggiori dimensioni (si pensi alla Sapienza di Roma), sono sotto gli occhi di tutti, in termini di servizi scadenti, strutture fatiscenti, accesso difficile quando non impossibile alle biblioteche, il cui patrimonio non viene rinnovato a sufficienza, e da tempo.
Dall’altra, i tagli brutali che il patto di stabilità impone ad amministrazioni locali sempre più indebitate tolgono ai comuni margini di intervento sulle piccole e grandi realtà che fanno cultura in Italia: la variegata galassia di associazioni, manifestazioni, festival che punteggiano la penisola. A questo proposito, Marino Sinibaldi è intervenuto sul Domenicale del Sole 24 Ore del 14 aprile scorso per criticare il fiorire indiscriminato, in Italia, di festival letterari, eventi, feste del libro, nati sulla scorta delle pionieristiche iniziative di Mantova e Torino, e che spesso godono di sovvenzioni pubbliche.
“Troppe manifestazioni”, ha scritto, troppo disordine e disorganizzazione, mentre le librerie si svuotano e i libri si vendono sempre meno. Quasi un’eco di quel “piazze piene, urne vuote” di novecentesca memoria. Al florilegio di festival letterari che punteggiano la penisola si propone quindi, con logica centralizzatrice, un rassemblement strategico, una serie di accorpamenti che facciano ordine ed evitino la dispersione.
Sinibaldi guida una delle più stimolanti e ricche reti radiofoniche italiane, Radio3, che offre un servizio culturale di prim’ordine, oltre che essere responsabile proprio di un bellissimo festival, il Festival del Libro e della Lettura di Roma. Ma certo che è un po’ un habitus italiano quello del “troppo”. A intervalli regolari qualcuno si lamenta di “troppi Premi”, “troppe cravatte”, “troppe lettere”, “troppe emittenti radiofoniche”.
È vero, spesso i festival letterari nascono e crescono in modi poco ortodossi e avventurosi. Fiori all’occhiello di improbabili assessori provinciali in cerca di visibilità e contatti con i giornalisti, o emanazione di minuscoli ritrovi di lettori domenicali, o ancora creazioni un po’ narcisiste di questo o quel libraio che si è stufato di stare solo al banco e vuole sfoggiare la propria erudizione. E l’aneddotica ricorda infiniti episodi di ospiti bistrattati, costretti a presentare il proprio libro tra una cassoela e un lambrusco, davanti a pubblici appesantiti e affaticati; o di presentazioni organizzate con mezzi di fortuna, in cui al malcapitato scrittore viene chiesto di portare lui i libri da vendere, o dove i libri inspiegabilmente non arrivano; o di uffici stampa inesistenti che fanno sì che l’autore di best-seller che viene in visita in un paesino della provincia non sia segnalato neanche sui giornali locali.
Ma al netto di tutto questo, per almeno altrettante volte, la passione tutta italiana per il sapersi arrangiare, per l’invenzione e la creazione, ha prodotto invece miracolosi incontri di persone e di pubblico, occasioni di scambio e di promozione, in luoghi impensati della Penisola.
Quanto al denaro “sottratto” all’ente pubblico da iniziative che hanno il merito innegabile di favorire l’interesse, il risvegliarsi della curiosità non solo culturale ma anche commerciale per il mercato librario, l’ammontare è talmente esiguo – nell’Italia dei variopinti capitoli di spesa e degli infiniti sprechi – che il fantomatico “peso” economico per il contribuente delle manifestazioni culturali si ridimensiona di molto.
Non ci si dica che sono i dieci, i venti o i trentamila euro spesi da una regione o da un comune a far saltare i conti degli enti locali. Le stesse amministrazioni che spesso in Italia hanno favorito, a suon di delibere, lo sviluppo di centri commerciali, outlet, affarismi di vario genere, per importi infinitamente più elevati e in ambiti dove l’interesse pubblico proprio non si vede.
Chi abbia praticato un minimo le innumerevoli varianti di eventi, incontri estivi e invernali, nelle piazzette e sulle terrazze sul mare, nelle vecchie librerie e negli angoli dei centri commerciali, sui prati e sulle spiagge, sa come queste realtà si reggano spesso (con alcune oggettive eccezioni) su contabilità ridotte all’osso, sul contributo di decine, centinaia di volontari, su margini quasi inesistenti, generalmente riversati tutti sul territorio.
Sono tempi strani i nostri, dove le ossessioni budgetarie e di disciplina di bilancio rischiano di fare un po’ perdere il bandolo della matassa. Un modello alternativo? Anziché costringere tutto il nostro sottobosco cultural-librario nelle maglie dell’ennesima regolazione dettata dal centro potrebbe essere utile ricordare quello che ha detto Giuseppe Laterza - non esattamente un neofita del settore - al recente convegno torinese delle “Città del Libro”, convegno che per la prima volta ha riunito nello stesso luogo settanta di queste eccezioni italiane, con il loro bagaglio di differenze e allegre autoreferenzialità: perché sopprimerle o accorparle, si deve semmai, dice Laterza, aiutarle a crescere, a fortificarsi, a sopravvivere ai rivolgimenti economici e amministrativi. A sprovincializzarsi e a internazionalizzare, ove possibile.
Tornando all’istruzione, questo può valere anche per la galassia delle nostre cento università, comprese quelle precarie, sperimentali e neonate, calate nell’universo della provincia italiana. Università del gusto, dell’enologia, dello studio del territorio e delle sue risorse naturali sono patrimoni per un paese che campa su lifestyle, bellezza e decentralizzazione. E se in tempi di recessione non sempre è facile attrarre risorse private, il pubblico non può mancare a un investimento che riguarda il futuro della collettività.
*Responsabile della rassegna Una Montagna di Libri, Cortina d'Ampezzo
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