1. Il sapere storico è sempre retrospettivo. Ma per quanto ci è dato capire, la nostra epoca è attraversata da una profonda tensione spaziale tra i valori del luogo e quelli della mondializzazione. Anche se queste tensioni si sono finora scaricate con maggior forza sulla sfera economica, forse il luogo più afflitto è quello politico, e per un motivo molto semplice.

La stessa parola “politica” ci ricorda come in Occidente questo discorso millenario abbia avuto origine nella polis greca, ossia in un’enclave ristretta, non tanto per rilievo, ma per scelta. Essere un cittadino – altra eco dell’origine greca di tale discorso – presupponeva l’esser membro attivo (per censo) di una comunità ristretta. A contrario, la globalizzazione è cosmopolita e non riconosce alcun confine che non sia quello planetario. Se è vero che la tensione fra questi due ambiti non è nata con la globalizzazione, è anche vero che negli ultimi vent’anni ha assunto proporzioni drammatiche. O cede l’una o cede l’altra. I due ambiti si elidono a vicenda, provocando un vuoto di potere pericoloso da gestire. Poniamo l’esempio più eclatante. Se la scala su cui agisce il potere del nostro tempo è davvero quella planetaria, si presenta il quesito: è desiderabile che una potenza occupi una posizione imperiale capace di governare la mondializzazione? Porre questa domanda oggi è porre la questione che più preoccupa gli architetti del nuovo ordine mondiale.

2. Fino a poco tempo fa internet pareva l’asse portante della globalizzazione. Fino a poco fa, internet dava forma al luogo/non-luogo fondamentale del nostro tempo, una rete spaziale che annullando le distanze annullava la durata del tempo nell’istante del suo apparire. Oggi, per una serie di ragioni, questa fase pare conclusa. Tutto lascia presagire che le prime crepe prodottesi sulla continuità e neutralità di internet porteranno alla balcanizzazione della rete. Occorre dire, però, che se ciò accadesse davvero, a vincere sulla cosmopoli planetaria non sarebbe la polis (e quindi la politica), ma lo stato-nazione, il soggetto instabile nato dal primo tentativo di estendere la politica oltre l’orizzonte del locale. E a giudicare dagli attori in campo (la Russia, la Cina, la Turchia, la Siria), se a vincere sarà lo stato-nazione non si tratterà necessariamente di una vittoria della democrazia.

In passato anche esimi teorici della globalizzazione avevano esagerato nel dare per spacciato lo stato-nazione. Molti conservatori presagivano l’arrivo di un nuovo impero capace di governare il mondo come l’Impero romano aveva governato il bacino mediterraneo. Molti a sinistra intendevano sfruttare l’estensione imperiale del sistema “neoliberista” per allargarne le maglie fino a creare spazi autogestiti (le teorie più recenti di Antonio Negri altro non sono che l’applicazione universale delle sue vecchie teorie autonomiste). Quanto sta accadendo non è né di sinistra né di destra. È semplicemente il prodotto della resistenza che lo stato-nazione oppone alla mondializzazione.

La Guerra globale al terrore può essere letta come reazione conservatrice alla globalizzazione, diretta a riorganizzare la nozione di frontiera in un’epoca in cui le frontiere si sono fatte più volatili. Il progetto neoconservatore americano è con ogni evidenza fallito, ma l’impegno delle agenzie governative come la Nsa dimostra che gli Stati Uniti continuano a pattugliare la frontiera digitale del paese per reprimere alla fonte ogni ulteriore tentativo di colpire gli interessi americani nel mondo. Questo pattugliamento continuo e su scala globale ha provocato una ulteriore accelerazione del processo disgregativo della rete. Le rivelazioni di Edward Snowden hanno dato la stura a tutta una serie di polemiche, divenute materiale argomentativo per chi sostiene che le nazioni devono difendersi dall’intrusione statunitense. Cina e Russia hanno già provveduto a secedere per quanto in loro potere e anche paesi europei come la Germania intendono creare reti internet indipendenti. E questo malgrado sia ormai evidente (dal carattere blando e rituale delle proteste) che nel setacciare i dati gli americani lavorassero anche per conto degli europei (pare che circa 8.000 oggetti investigativi raggiungano l’Europa dagli Stati Uniti ogni anno).

Ora a complicare le cose c’è pure il parere positivo dell’esecutivo americano a dare due velocità alla rete, dimenticandosi del suo primo principio fondatore, la neutralità. Ogni attore ha identiche velocità in rete. Se venisse davvero concessa una doppia velocità, ci troveremmo in presenza di un’ulteriore spinta disgregativa.

3. Eguaglianza e neutralità sono idee elusive. Ma finora avevano funzionato bene nel guidare la rete verso un esito che promuovesse l’innovazione e la libertà d’espressione. La doppia velocità pone una prima barriera, e questo in un contesto in cui gli stati-nazione vogliono porre altre e più pericolose barriere. Ci stiamo muovendo verso un momento storico in cui si registrerà la compresenza di più reti informatiche, un pluriverso di mondi disuguali. Potrebbe venire quindi a mancare quell’asse portante su cui è corsa la globalizzazione. In positivo potremmo dire che in questo modo la rete rifletterà meglio il mondo in cui viviamo. Un mondo in cui lo spazio cibernetico e il territorio degli stati-nazione si compenetrano in modo asimmetrico e disarmonico. Speriamo solo che se la rete dovesse davvero balcanizzarsi l’Europa finisca nel migliore degli universi possibili, e non in uno di quegli incubi burocratici che con tanta cura riesce a creare.