Dalla Striscia di Gaza: nulla da segnalare. Niente di nuovo nemmeno da Israele. Nelle crisi tra Israele e Hamas ci sono degli elementi che si ripetono sempre. C’è il casus belli, nella fattispecie l’uccisione di tre ragazzi israeliani a Hebron e l’assassinio di un giovane palestinese a Gerusalemme – questo come vendetta per la morte dei primi.
C’è la conseguente escalation. Di solito lo scambio di colpi è graduale. Nelle prime 48 ore dalla Striscia partono i primi razzi che Israele abbatte come se fossero freccette. Poi, se in dieci giorni non si è ancora arrivati a una tregua, si può parlare di guerra aperta. E così è stato. Il lugubre canovaccio è stato rispettato nei minimi dettagli.
1. Giorni fa, i mediatori egiziani hanno fallito nel loro tentativo di far ragionare le parti. Davvero il Cairo si illudeva di raccogliere consenso tra i leader di Hamas, ovvero tra i cugini poveri dei Fratelli musulmani egiziani spodestati l’anno scorso senza tanti complimenti? Il generale al-Sisi è veramente così ingenuo? La tregua della scorsa settimana ha retto sei ore. Poi Hamas l’ha rigettata e ha ripreso a far piovere missili su Ashkelon e Sderot. Poche ore prima il governo Netanyahu si era affrettato a dare astutamente l’ok al cessate il fuoco. Ben prevedendo il no del nemico. Così poi ha potuto ritirare il suo ramoscello di ulivo e le ostilità, quelle serie, fatte di forze di terra che penetrano a Gaza, hanno preso il via. Soddisfatti saranno anche i vertici operativi di Hamas, che potranno sfoggiare un arsenale missilistico a lunga gittata finora ignoto alle cronache occidentali. A proposito chi lo finanzia e lo fornisce? I falchi stanno avendo la meglio.
Nessuna novità. C’è infatti la stranota deriva di posizioni radicali, da ambo le parti, di disinformazione e soprattutto la conta di morti e feriti. In questa prima metà di luglio, i nemici di Israele hanno spolverato le loro armi di discredito nei confronti di un intero Paese. Hanno sfruttato l’omicidio di Mohammed Abu Khdeir, il giovane palestinese bruciato vivo da alcuni ebrei fanatici – peraltro già arrestati dalla polizia israeliana – per promuovere la canonica campagna di odio. Tale per cui Israele colpisce Gaza senza coscienza nei confronti della popolazione civile, senza un genuino interesse di pace, bensì mossa dall’intenzione di fare tabula rasa della Striscia e della popolazione palestinese. Tutto questo propinando al mondo fotografie e video di stragi commesse dall’aeronautica e dai droni di Tsahal: vessilli mediatici a conferma che la giustezza pende ciecamente dalla parte dei palestinesi. Per molte di queste immagini, tuttavia, il marchio “made in Palestine” è stato smentito.
La disinformazione, comunque, non risparmia nemmeno l’altra parte della barricata. Il caso Khdeir resta un dramma del tutto nuovo e inaspettato, che però l’opinione pubblica israeliana, anzi le comunità ebraiche di tutto il mondo, stanno già elaborando. Di fronte alla chiamata da parte delle fazioni più radicali dell’ebraismo, per una vendetta di piazza, gli ebrei sono i primi a levare gli scudi di civiltà e stato di diritto. Tuttavia, nemmeno le foto di quei residenti di Sderot che assistevano ai raid, alla stregua di un drive in, non sono stati una bella immagine per Israele. Odio e vendetta, che si sposano perfettamente con la disperazione di due popoli, come ha scritto di recente David Grossman, sono anch’esse un déjà vu, in questo per nulla nuovo conflitto israelo-palestinese.
Ma se non c’è niente di nuovo, allora perché continuare ad accanirsi con analisi, teorie, previsioni? Perché non fare come l’Amministrazione Obama, oppure l’Unione europea, le quali si limitano a esternare dichiarazioni precotte e inutili per trovare una soluzione? No, l’inerzia non merita spazio. Perché nella lista dei déjà vu è giusto includere un confronto etico. Un allineamento e un successivo paragone tra le colpe e le virtù di Israele e quelle dei palestinesi. Sarà pure un gesto politicamente scorretto. Ma va fatto.
3. Qui non si sta parlando di due modelli uguali che tentano di prevalere. Quello israelo-palestinese non si limita a essere uno scontro simmetrico per il dominio di una terra. La guerra franco-prussiana, con l’Alsazia e la Lorena contese, è lontana dal quadrante mediorientale. Lontana non solo in termini geografici e temporali. Va detto in maniera inequivocabile che sono in ballo due sistemi inaccostabili di considerare la vita, di trascorrere la quotidianità e la coabitazione. Da una parte c'è un modello democratico, dove i diritti umani e lo stato di diritto hanno una propria robustezza. Dove la giustizia, sia anche d’acciaio, o la forza forse spropositata con cui interviene Tsahal, sono monopolio delle istituzioni pubbliche. E se poi queste sono nelle mani di un governo miope nelle decisioni operative, sfibrato nelle iniziative di pace e schiavo di ricatti e corruzioni, come è quello di Netanyahu, c'è chi può dirlo senza timore di ritorsioni o persecuzioni. Israele è un paese dove chi si fa giustizia con le proprie mani va diritto davanti a un magistrato. Dove un giornalista dissidente viene criticato e dileggiato, ma non scompare nel nulla. La Striscia di Gaza e la Cisgiordania non sono così. La prima resta soggiogata a una crisi umanitaria di cui sono responsabili tutti: palestinesi, israeliani e occidentali. Perfino le organizzazioni umanitarie, che dal 2005 a oggi non sono state in grado di migliorare in nulla la vita degli abitanti locali.
A Gaza il governo, se tale può essere chiamato, è l’espressione di un arcipelago di movimenti estremisti, gruppi paramilitari, milizie, unità terroristiche, clan tribali e criminali. Nulla a che vedere con soggetti dotati di un know how politico, o di una sensibilità istituzionale per provvedere all’amministrazione della regione. Hamas è un’organizzazione che affonda le radici nel terrorismo, capace di nascondere le proprie derive bellicistiche nelle cantine delle scuole o negli ospedali, per poi mostrare sugli altari le vittime dei raid di Israele. Questa è la differenza. Benjamin Netanyahu non è certo il premier più adeguato per trattare o giungere a un accordo di pace. L’elettorato l’ha scelto lo scorso anno, però. Anzi, lo ha confermato, dopo già quattro anni di governo. Se dovesse cambiare idea, ha tutti gli strumenti per mandarlo a casa. Mentre nella Striscia e nei Territori le cose non funzionano alla stessa maniera. Hamas resta arroccata sulle proprie posizioni di movimento armato, facile a diffondere terrore e del tutto “unfit” per governare. Da un Hamas, che ricorre agli scudi umani, non può nascere la pace. Non è escluso che i palestinesi, almeno quelli più ragionevoli, se ne rendano conto. Il problema è che non possono farci nulla. E anche questo lo si sa da tempo.
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