I primi cento giorni di Donald Trump riportano l’attenzione di media e politici sul vetusto (ma ancora efficiente) sistema costituzionale dei “checks and balances”.
Nei primi cento giorni di Donald Trump, il nuovo capo dell’esecutivo che aveva giurato di “prosciugare la palude” di Washington, l’America ha scoperto, con un sospiro di sollievo, che il sistema costituzionale di “checks and balances” ossia dei pesi e contrappesi funziona bene dopo secoli di uso. Donald Trump ha conquistato la presidenza convinto di poter imporre il suo “modus operandi”, nella fattispecie l’impiego di ordini esecutivi di drastica applicazione nel settore dell’immigrazione. Sono passate poche ore e la magistratura ha premuto il bottone di arresto. Il caos scoppiato negli aeroporti americani è cessato non appena il Department of Homeland Security (il Dipartimento di Sicurezza Nazionale) ha cessato di imporre le misure restrittive alle frontiere ed il Dipartimento di Stato ha consentito l’ingresso di migliaia di persone in possesso di visti validi.
L’arresto nell’applicazione degli ordini esecutivi è stato decretato da un giudice federale dello Stato di Washington, James Robart, che ha citato la decisione della Corte Suprema che nel 2015 aveva bloccato un ordine esecutivo del presidente Obama, sempre in materia di immigrazione. In breve giro di tempo, è intervenuta la corte d’appello federale del Nono Circuito che ha definitivamente bloccato l’applicazione degli stessi “executive orders” che escludevano ogni possibilità di ingresso ai rifugiati e altri individui di sette Paesi a maggioranza islamica. “Ci vediamo in corte”, ha risposto in tono di sfida il Presidente Trump, preannunciando in pratica che la questione finisca alla Corte Suprema. Ma qui la questione si complica perché oggi la Corte Suprema ha solo otto membri dopo la morte del Giudice Scalia, quattro “liberali” e quattro conservatori. Fu per l’appunto un verdetto in parità che impedì ad Obama di dar corso al suo ordine esecutivo del 2015 che avrebbe impedito alle autorità federali di deportare cinque milioni di “immigrati senza documenti”. In un altro caso famoso, la Corte Suprema bloccò l’ordine esecutivo del Presidente Bush che mirava a processare i detenuti di Guantanamo presso tribunali militari. In particolare, la Corte invocò tra l’altro il rispetto delle Convenzioni di Ginevra.
Il sistema dei pesi e contrappesi è dunque vivo e vegeto in una salutare operazione di rispetto di questi cardini istituzionali dell’America. Incidentalmente, fu James Madison, appoggiato da Thomas Jefferson, che spinse genialmente per l’adozione di un tale sistema costituzionale nell’intento di proteggere la libertà in una grande repubblica. Tra il potere esecutivo e quello giudiziario è ancora una volta in atto, dunque, una delicata partita a scacchi. L’arrivo in Corte di un nuovo giudice di formazione conservatrice supererebbe l’impasse di un nuovo verdetto di parità tale da lasciare la situazione invariata con l’annullamento degli ordini esecutivi. Molto dipende dalla capacità dei Senatori democratici di imbottigliare la conferma del giudice Neil Gorsuch, con l’argomento che il giudice nominato da Trump non dà alcun affidamento di poter svolgere un ruolo di controllo indipendente sull’operato dell’esecutivo. Tutto dipende da come si svilupperà la tattica repubblicana per l’approvazione senatoriale della nomina.
Di fatto, il ruolo del potere giudiziario è quello di assicurare che le decisioni prese dalle altre due branche del governo siano compatibili con le leggi della nazione e soprattutto con la Costituzione. Tra le conseguenze del vaso di Pandora aperto dagli ordini esecutivi del Presidente Trump spicca intanto il fatto che la conferma del Giudice Gorsuch è incastrata nella contesa tra il Presidente e il potere giudiziario. Il Dipartimento della Giustizia si batte inevitabilmente su un principio, che gli ordini esecutivi rappresentano “l’esercizio legittimo dell’autorità del Presidente sull’ingresso di cittadini stranieri negli Stati Uniti e sull’ammissione di rifugiati”. Sotto questa luce, l’opposizione iniziale del giudice federale e quella susseguente della Corte d’appello è probabilmente eccessiva.
Sullo sfondo, comunque, occorre considerare la radicata tradizione secondo cui la magistratura si rifiuta di vidimare automaticamente le politiche dell’esecutivo. Ed ancora, la politica di Trump ha non soltanto risvegliato quella tradizione, ma ha fomentato l’opposizione di almeno sedici Attorney Generals, ossia dei responsabili dell’amministrazione della giustizia eletti negli Stati, che hanno prontamente sospeso l’applicazione degli ordini presidenziali nei rispettivi stati. Per non parlare della mobilitazione di massa che ha riversato decine di migliaia di oppositori negli aeroporti e nelle piazze dell’America. Gli Attorney Generals hanno bollato gli ordini esecutivi come “anti-costituzionali” ed “anti-americani” affermando che la libertà religiosa è sempre stata “il fondamento della nazione” e che “nessun Presidente può cambiare questa verità”. Per contro, l’Amministrazione Trump nega che gli ordini presidenziali in questione rappresentino un “ban”, ossia una proscrizione “contro i musulmani” osservando che i cittadini di Paesi a maggioranza musulmana che non siano i sette elencati non sono colpiti da alcuna proibizione di ingresso negli Stati Uniti. Al che gli Attorney Generals hanno risposto impegnandosi a “lottare uniti” contro qualsiasi proibizione nonché contro la costruzione di qualsiasi muro.
Uno dei fatti salienti nell’opposizione contro la presidenza Trump è indubbiamente la parte che in essa recitano le donne, sulla scia dell’imponente Marcia delle Donne a Washington all’indomani dell’insediamento del Presidente Trump. Un addentellato di tale opposizione è la reazione al licenziamento del Vice Ministro della Giustizia, Sally Yates, facente funzioni di Attorney General, che si era opposta all’esecuzione degli ordini esecutivi. La decisione di Trump echeggiava il famoso licenziamento dell’Attorney General Elliot Richardson da parte del Presidente Nixon, a seguito del suo rifiuto di estromettere lo Special Prosecutor per l’affare Watergate Archibald Cox, un giurista di grande prestigio. In quel “massacro” svoltosi nell’estate del 1974, anche il vice Attorney General, William Ruckelhaus, era stato licenziato da Nixon per lo stesso motivo. Il numero tre del Dipartimento della Giustizia, Robert Bork, aveva finalmente obbedito. Bork però era destinato a pagarla cara perché successivamente il Senato stroncava la sua candidatura a giudice della Corte Suprema avanzata dal Presidente Reagan. Oggi, l’iniziale resistenza da parte della dirigenza del Dipartimento della Giustizia è stata rapidamente superata e l’opposizione congressuale dei democratici non ha impedito che il senatore repubblicano Jeff Sessions venisse confermato Attorney General. In ogni caso, è realistico prevedere che Donald Trump non avrà vita facile nella sua presidenza a sorpresa.
Tanto per cominciare, è scontato che la questione degli ordini esecutivi osteggiati dalla magistratura e da un gran numero di Attorney Generals eletti continuerà a trascinarsi per lungo tempo. Vero è che gli ordini esecutivi costituiscono un importante strumento di governo, con una procedura standardizzata, ma vero è anche che in non pochi casi stabiliscono precedenti di difficile e contrastata applicazione, tali da promuovere una vigilanza costante per garantire che il Presidente osservi i limiti costituzionali del suo mandato e non eserciti un potere eccessivo. I sociologi sono probabilmente il nucleo professionale che all’infuori dei politologi è più immerso nell’analisi della sequela degli eventi nell’era Trump. La congiuntura di proteste e manifestazioni decisamente ostili, come la Marcia delle Donne a Washington e i moti di piazza in molte città, viene interpretata come una rivolta politica sospinta dalla cosiddetta “relative deprivation”, la privazione relativa indotta dal drammatico divario tra quello che la gente si aspetta e quello che realisticamente sa di non poter conseguire. La privazione insomma viene espressa dal senso di perdita di potere in una vasta classe di americani, quella stessa degli uomini bianchi senza titoli di studio che hanno risposto alla chiamata demagogica di Donald Trump. Una reazione preconizzata tra gli altri da Michael Kimmel nel suo libro “Angry White Men” del 2013.
È indiscutibile infatti che Trump abbia saputo far leva sul forte calo di impieghi ben retribuiti negli stabilimenti e nelle industrie estrattive della Rust Belt americana. Ed ora, come un boomerang, la privazione relativa colpisce il presidente Trump quando questi insiste di voler eliminare l’Affordable Care Act, meglio noto come Obamacare. A parte il fatto che la maggioranza repubblicana al Congresso non ha alcuna idea concreta su come sostituire Obamacare, gli ultimi sviluppi dimostrano chiaramente che una legione di americani - tra cui molti critici dei crescenti costi e delle modalità di applicazione della legge - teme di perdere i reali benefici della normativa per la salute pubblica, qualora Trump ed i repubblicani decretassero il suo “repeal” ossia la sua abolizione totale. La crescente accettazione della Obamacare, connessa con un maggiore timore di perdere i benefici acquisiti, gioca ormai una parte rilevante nel clima delle aspettative che segnerà il destino della presidenza Trump.
Gli americani accettano in misura non indifferente (si calcola il 42 per cento) i propositi del presidente Trump per il rilancio dell’economia, il rinnovo delle infrastrutture ed il potenziamento della difesa, ma non a costo di accrescere in misura sproporzionata i poteri dell’esecutivo. Il conflitto apertosi sul ricorso agli “executive orders” è per il momento centrale, ma non perché il Presidente abbia in mente modifiche sostanziali alla struttura e operatività del governo, quanto per il rischio che molti avvertono che Trump oltrepassi certi limiti. Tra gli aspetti preoccupanti è il fatto che, come hanno sottilmente avvertito i tre giudici della corte d’appello, gli ordini esecutivi peccano di scarsa chiarezza sia nell’enunciazione sia nell’implementazione. Non meno preoccupante è il fatto che la Casa Bianca non abbia consultato in anticipo i suoi esperti legali, né abbia fatto partecipe dall’inizio il Department of Homeland Security. In ultima analisi, l’abuso degli ordini esecutivi rappresenta un precedente pericoloso e chiama in causa il rispetto dei pesi e contrappesi, la garanzia costituzionale di ripartizione dei poteri allo scopo precipuo di far sì che nessuno dei tre rami del governo eserciti un potere eccessivo. In frangenti certamente accesi, l’America non manca di rallegrarsi della vitalità del suo ordine costituzionale.
© Riproduzione riservata