Recentemente il ministero dell'Economia ha predisposto una bozza di decreto legge che prevede una modifica all’art. 768-bis c.c. introducendo alcune novità nella disciplina civilistica del patto di famiglia. Lo scopo dichiarato del decreto è quello di facilitare il passaggio generazionale nell’impresa famigliare. Tale modifica consentirebbe di individuare il successore dell’azienda (o delle partecipazioni) in un momento successivo rispetto a quello di stipula del patto di famiglia.
In tal senso, fino a che non si siano create le condizioni per individuare effettivamente il discendente, sarebbe possibile affidare l’amministrazione dell’azienda a un manager di fiducia dell’imprenditore. La modifica è pensata per agevolare il delicato momento di passaggio, con un occhio di riguardo verso tutti quei casi in cui il possibile successore non sia ancora in grado (per esempio per la giovane età) di prendere in mano le redini dell'azienda.
1. In Italia, oltre il 90 per cento delle aziende ultracentenarie riflette il modello dell’impresa famigliare, in linea peraltro con i caratteri del tessuto imprenditoriale del Paese. Il capitalismo familiare è connotato da numerosi aspetti positivi. Basti citare la capacità delle aziende famigliari di riuscire nel tempo a mettere in atto processi produttivi efficienti e occupare posizioni di rilievo nei mercati. Allo stesso tempo, però, non è un sistema privo di criticità interne, come ad esempio la limitata propensione al reinvestimento dei profitti e la non sempre adeguata allocazione delle risorse manageriali. Particolarmente problematico, poi, risulta essere il tema della successione generazionale. Questo tema è particolarmente delicato perché tocca un nervo del sistema. Se infatti è ampiamente provato che a provocare le crisi aziendali è in prevalenza l’organo imprenditoriale, il cambio dell’organo imprenditoriale rappresenta altresì il fattore cruciale cui associare le fasi di ripresa dell’impresa. Secondo i risultati di una ricerca svolta su un campione di aziende italiane, nel 72% dei casi il cambio del management ha rappresentato uno dei fattori cui ricollegare il turnaround dell’impresa in crisi. Secondo i dati della Sda Bocconi, delle oltre 66.000 imprese coinvolte ogni anno in Italia nel cambio generazionale, il 30% va incontro a una crisi irreversibile e solamente il 15% riesce a superare la seconda generazione; se questo non bastasse, solo il 35% delle aziende famigliari mantiene la stessa proprietà dalla prima alla seconda generazione, laddove dalla seconda alla terza la percentuale scende al 15%. Gli addetti ai lavori la chiamano la “Sindrome dei Buddenbrook” dal famoso romanzo di Thomas Mann: un inaridirsi delle capacità imprenditoriali nella trasmissione intergenerazionale dell’attività di impresa.
Ciò che differenzia una azienda da un organismo vivente è che, mentre il primo nasce, cresce e muore, il secondo, se ben amministrato, può continuare a crescere ben oltre i limiti del ciclo biologico della vita umana. La letteratura sul tema della longevità delle imprese identifica, sulla base dello studio di aziende ultracentenarie, molteplici ma comuni fattori di durata nel tempo, ed uno di questi fattori è proprio la continuità manageriale. Per quanto riguarda il tessuto imprenditoriale italiano, non è un caso che la maggior parte delle imprese longeve sia famigliare: in Italia è infatti la continuità dinastica della proprietà che ha provveduto alla continuità manageriale. Di contro, questo sistema produce alcune disfunzioni di sistema, derivanti dall’incapacità di delegare responsabilità decisionali ai manager stipendiati.
In termini generali, il successo di una impresa familiare viene misurato seguendo due modelli astratti, corrispondenti a due tipi ideali, quello “tradizionale” e quello “aperto”. Nel primo caso, l’identificazione fra impresa e famiglia è praticamente completa, tanto che, anche quando ci si trovi in organizzazioni complesse, le posizioni di vertice sono comunque sempre assegnate a membri della famiglia. Nel secondo, la struttura manageriale contempla la presenza di outsider in posizioni di rilievo ed esiste una competizione per le mansioni di vertice con i membri della famiglia. L’evidenza empirica conferma la tenuta di questi due modelli, nonostante esistano posizioni intermedie che sono determinate di volta in volta dal contesto generale e dalle caratteristiche particolari che si ritrovano a livello d’impresa, quali il settore di appartenenza, il grado di turbolenza settoriale, la cultura prevalente e numerosissime altre variabili. Malgrado ogni variabile, però, la presenza della famiglia, in posizioni fondamentali, anche da un punto di vista operativo, resta una costante nel nostro sistema imprenditoriale.
Nel 2008 la Sda Bocconi ha effettuato una ricerca sull'utilizzo degli strumenti di programmazione e controllo nelle aziende famigliari italiane, rilevando come non sia, di fatto, aumentato da dieci anni a questa parte. Lo si può stabilire con un’analisi dei risultati di sei rilevazioni sui sistemi di programmazione e controllo compiute tra il 1998 e il 2006 in Lombardia e Veneto: nella piccola e media imprenditoria settentrionale domina quella con forte radicamento familiare, con una complessità strategica modesta. In oltre il 50% dei casi è stata rilevata solo un'area strategica di affari e solo il 10% riesce a lavorare su più di tre aree di business. La funzione di controllo di gestione in media è presente in un’azienda su due. Il consiglio di amministrazione è attivo in tutte le imprese e forte è la presenza di componenti della famiglia: sono proprietari i presidenti e amministratori delegati in oltre la metà delle posizioni censite. Si attenua, invece, la presenza famigliare nelle posizioni manageriali a maggiore contenuto tecnico. La pianificazione strategica è poco diffusa e la usa solo il 30% delle piccole e medie imprese. I dati raccolti, quindi, confermano che la guida nelle piccole e medie imprese famigliari avviene ancora mediante gli strumenti del controllo sociale e modalità informali. Paradossalmente però le performance di crescita del fatturato aziendale tendono a peggiorare al crescere del dinamismo dell'ambiente esterno e della complessità strutturale interna, ossia nelle situazioni in cui i meccanismi di controllo dovrebbero generare più valore.
2. Se il modello dell’impresa famigliare è quello che prevale nel nostro paese, in esso il rapporto impresa-famiglia rappresenta una variabile non solo importante, ma fondamentale per la continuità nel tempo dell’azienda: intrinsecamente legato a questo tema è la questione della successione imprenditoriale. È proprio nella fase del passaggio del timone che l’azienda si trova a dover mischiare, per forza di cose, i rapporti famigliari con quelli aziendali e, inevitabilmente, a veder inasprirsi o svilupparsi eventuali conflitti rimasti fino ad allora latenti. È nel contesto del cruciale passaggio generazionale che le dinamiche familiari si riaprono e si mescolano a quelle aziendali. Per coglierne la profondità è necessario e non scontato aver chiaro i sentimenti che sono alla base di tali dinamiche e che da queste sono imprescindibili.
Il quadro non dà luogo a motivi di particolare ottimismo. Secondo la teoria degli stadi di sviluppo, imperniata su concetti di longevità d’impresa e continuità della leadership, le aziende famigliari sarebbero destinate nel giro di due, tre generazioni, a trasformarsi in imprese manageriali oppure a scomparire, come accadde ai Buddenbrook nel famoso romanzo di Mann.
È evidente, peraltro, che la forza e la vitalità di un’azienda famigliare siano date anche e soprattutto dalla propria capacità di durare nel tempo: la centralità del passaggio del timone emerge con chiarezza quando si ragiona sulle problematicità derivanti dalla riproduzione del modello famigliare nel tempo. Un esempio significativo di passaggio fallimentare è rappresentato dal caso della Burago, azienda operante, fra il 1974 e il 2005, nel settore del modellismo. L’azienda prosperò fino al momento in cui il fondatore la lasciò nelle mani dei due figli. In un periodo di crisi industriale, il sistema bancario si rifiutò di appoggiare un gruppo che non poteva godere della copertura dei beni patrimoniali a causa dei dissidi fra i fratelli. L’epilogo della vicenda è rappresentato dal fallimento dell’azienda e dall’apertura dell’inchiesta per falso in bilancio. Tuttavia, accanto ai casi fallimentari, vi sono anche storie di successo, come quello della Unitessile di Treviso in cui, grazie al reciproco riconoscimento si è creato un forte equilibrio fra le parti: da un lato i figli riconoscono al padre la visione strategica, dall’altro il padre delega ai figli la gestione aziendale, con tutti i rischi che qusta comporta.
Ma quali sono i problemi, le criticità connesse al passaggio del timone? Si tratta, da un lato, di criticità inerenti la figura dell’imprenditore e la sua personalità. Sono per lo più problemi di carattere emotivo, quali un forte attaccamento all’impresa e l’identificazione nella stessa, che implicano la difficoltà a lasciarla nel momento del passaggio; la paura di invecchiare, che può portare a procrastinare all’infinito il trasferimento e, infine, l’impulsività dell’imprenditore, che può generare un passaggio di mano senza gradualità e dunque senza controllo. Dall’altro lato, troviamo problematiche inerenti invece le modalità di gestione e le criticità che ne scaturiscono: la gestione accentrata, con strutture di tipo verticistico e senza un supporto manageriale così che spesso, il solo a conoscere i reali meccanismi di controllo e gestione dell’azienda è l’imprenditore stesso; la pianificazione senza condivisione, che fa da corollario alla gestione accentrata, per cui gli eredi non sono realmente coinvolti nel passaggio di mano; la non definizione e la non divisione dei ruoli, che può generare confusione e meccanismi di deresponsabilizzazione con conseguenze importanti sul funzionamento stesso dell’azienda nel suo insieme e, infine, la sottovalutazione degli aspetti cruciali del passaggio generazionale: in questo senso molto spesso l’imprenditore ha l’errata convinzione che gli eredi continueranno senza problemi la sua attività non tenendo conto del fatto che, in realtà, molti equilibri potrebbero mutare considerevolmente.
3. La consapevolezza della criticità di questo tema è aumentata negli ultimi anni, sia da parte degli imprenditori, sia da parte degli enti nazionali e locali. Il momento del passaggio delle consegne, infatti, oltre ad essere problematico da un punto di vista emotivo per le persone coinvolte, non è particolarmente agevolato dal punto di vista fiscale e burocratico. A tal proposito, la Commissione europea ha individuato una serie di interventi atti a favorirlo. Le principali misure raccomandate agli Stati membri consistono nel prevedere un diritto alla trasformazione delle imprese in virtù del quale queste possano passare da una forma giuridica all’altra senza la dissoluzione dell’impresa o la costituzione di un nuovo soggetto; nel consentire alla PMI di organizzarsi in forma di s.p.a., limitando il numero degli azionisti e con procedure semplificate; nel favorire la continuità delle società di persone; nella creazione di regimi fiscali favorevoli alla successione ereditaria e alla donazione; nella formazione, per fornire agli imprenditori le conoscenze necessarie per il trasferimento di impresa; nell’attivazione di servizi di orientamento e consulenza e, ancora, servizi bancari e finanziari che supportino le aziende in modo specifico durante la fase di passaggio.
Molto è stato fatto, molto si sta facendo, molto altro si deve ancora fare. Fra i possibili sostegni che sarebbe auspicabile mettere in campo con urgenza, si potrebbe prevedere l’istituzione di un osservatorio per monitorare la situazione, verificando metodologie, tempi di attuazione e risultati degli interventi. È pensabile, inoltre, una revisione delle norme del Codice Civile in materia di successione. La recente bozza di legge cui accennavamo in apertura va in questa direzione.
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