1. Lasciandosi andare a considerazioni che nelle sue intenzioni avrebbero dovuto restare private, il candidato repubblicano Mitt Romney è passato come un rullo compressore su trent’anni di paziente riorientamento della politica conservatrice americana.

Ecco cosa pensa Romney sulle tasse: “il 47% delle persone voteranno in ogni caso per il Presidente. E’ gente che dipende dal governo, che non paga tasse sul reddito. Non me ne devo preoccupare: non li convincerò mai”.

Sul Medio Oriente: “i palestinesi non hanno alcuna intenzione di raggiungere la pace. Un percorso verso la pace è quasi impensabile. E’ un problema che resterà irrisolto”.

Sul ruolo americano nel mondo: “ho visto Kissinger. Gli ho chiesto: come siamo percepiti in giro per il mondo?’ E lui mi ha risposto: ‘in una sola parola: deboli!’. Siamo deboli, ed è così che il presidente è percepito, da amici e nemici”.

Su eventuali incidenti internazionali: “lavorerò per sfruttarli” elettoralmente.

Quello che colpisce nelle frasi a tutto campo di Romney raccolte da una telecamera nascosta durante una cena con alcuni donatori milionari, e diffuse su Mother Jones dal nipote di Jimmy Carter è la negazione di un trentennale messaggio conservatore di ottimismo e fiducia, sia in campo interno che internazionale.

2. Per buona parte del Novecento, e comunque fino almeno agli anni Settanta, la destra americana era stata identificata innanzitutto con la parte benestante della nazione, tanto da passare per il partito dei country club, dei WASP, dell’élite del Nordest. 

Prima Goldwater, poi Nixon e infine Reagan cercarono ognuno a modo suo di cambiare questa percezione. Si trattava di scardinare l’opposizione fra gli “haves” e gli “have nots” e di imporre un’altra agenda, centrata su temi diversi: orgoglio nazionale vs. senso di colpa, risveglio del sentimento religioso vs. secolarizzazione, protezione di un modello morale vs. spontaneismo e disordine urbano, amore per la propria comunità locale vs. cosmopolitismo indifferenziato. Soprattutto, nel caso di Reagan: “possibilità” vs. “limiti”.

Ecco allora che il piccolo borghese,  uno dei tanti di quel 47% che “non paga le tasse sul reddito” perché guadagna poco, come dice Romney,  può tornare a votare repubblicano: non solo perché spera ragionevolmente di salire la scala sociale, ma anche e soprattutto perché a contare non sono solo i valori economici ma anche e soprattutto quelli morali, etnici, religiosi, culturali. I democratici, legati alla vecchia visione “sindacale” della protezione degli interessi dei meno abbienti, restano allora al palo.

3. La cosiddetta “gaffe” di Romney più che una gaffe in senso stretto sembra semmai la cartina tornasole di un modo di pensare, di uno spirito del tempo, cupo e sfiduciato, quello in cui viviamo. Coloro che non hanno amato Reagan e Bush possono festeggiare nelle dichiarazioni di Romney la dipartita di tutto un mondo: dal populismo che portava a corteggiare gli elettori della sinistra in nome di “valori” e morale (come avrebbero potuto altrimenti conquistare al GOP la West Virginia di fabbriche e miniere?), al neoconservatorismo che predicava l’intervento in nome dei valori e delle idee che avevano fatto grande l’America; all’attivismo in politica estera come diretta conseguenza del carattere “rivoluzionario” della democrazia statunitense.

Su questo si può stare tranquilli: dal candidato repubblicano non verranno tentativi di esportazione della democrazia. Lo ha detto lui. La ragione? Sarebbe inutile, non serve a niente.

C’è un’ultima questione, stavolta non ideologica ma tutta personale, umana. Ascoltando Romney non si può trattenere un certo fastidio per il modo sprezzante con cui tratta le tematiche e le persone. Certo, anche di Obama è stato detto che è arrogante e presuntuoso: ma il presidente, come dimostra l’ultimo scambio di battute con David Letterman, è capace di momenti di grande humor e di innegabile ironia. È accattivante. Tanto che in queste ore persino il maggiore biografo di Reagan, Lou Cannon, riconosce a Obama le doti di carattere e di simpatia che, in modo certo diverso, avevano consentito al suo predecessore di farcela. The likabilty factor, come lo chiama Cannon, è dalla parte del presidente. Non è poco.