Uno degli effetti perversi della legge elettorale che ci ritroviamo è che, ineffabilmente, tutta l’attenzione di analisti e commentatori in vista delle prossime elezioni politiche si è spostata su Lombardia, Sicilia e Veneto. Proprio le regioni che da vent’anni sono i fortini elettorali dell’alleanza berlusconiana appaiono determinanti nella formazione di una maggioranza consistente del Partito Democratico al Senato.
1. La battaglia elettorale per i democratici si presenta estremamente ardua, per non dire compromessa. L’effetto di trascinamento della candidatura di Maroni è un ordigno piantato nel consenso elettorale lombardo: per anomalo che sia, in questa occasione il voto regionale aiuta quello nazionale (il contrario di quanto avviene di solito). Il Pd si è ostinatamente dedicato a chiedere un ritiro della candidatura di Albertini, il che non è solo poco comprensibile (perché dovrebbe? In cambio di che cosa?) ma anche, se fatto, inutile: gli elettori lombardi di Albertini sono in larga maggioranza dei delusi dal centrodestra.
In questo scenario tutto centrato intorno all’universo lombardo, il primo a soffrire è il Veneto. Che “colore” ha lo scontento del Nordest? Chi sarà travolto e chi sarà risparmiato dall’ondata? Con la campagna maroniana lanciata in grande stile, la Lega Nord torna la Lega Lombarda della fine degli anni Ottanta, mentre la sua controparte veneta è marginalizzata e resa meno protagonista. Sarà difficile, impossibile bissare in Veneto il successo elettorale del 2010 (il 35,1%, con punte intorno alla maggioranza assoluta nella Marca felix trevigiana). Molti commentatori prevedono un sorpasso persino dal debole Pdl, mentre in alcune province (Padova? Belluno? Rovigo?) il movimento padano sarebbe intorno a un non esaltante 15%. Cose che accadono, in quella terra che nemmeno tre anni fa i consiglieri più vicini al neopresidente Luca Zaia ribattezzarono prontamente Zaiastan, fin dalla cena di festeggiamento, in una trattoria sul Piave, mentre i voti ancora venivano conteggiati e il futuro appariva roseo.
2. Se il blocco del consenso leghista in Veneto oscilla, il Movimento Cinque Stelle ne raccoglie parte dell’antico substrato. Beppe Grillo ha riempito la padovana piazza della Frutta, intrisa di simbolismo elettorale: fu lì che il comizio di Berlinguer del 7 giugno 1984 venne interrotto dal malore che lo condusse di lì a poco alla morte. Il tour elettorale veneto di Grillo registra un entusiasmo che ricorda da vicino i fasti bossiani di fine anni Ottanta. L’impressione è che il Movimento Cinque Stelle otterrà qui e altrove un consenso molto, molto più vasto dell’8% che gli dava Euromedia a fine gennaio, e probabilmente anche più del 13% attribuitogli da IPR Marketing ai primi di febbraio.
Tuttavia, può darsi che Zaia abbia da guadagnare, e molto, da questo scenario apparentemente drammatico. Innanzitutto, il dato di gradimento personale del Presidente è da trentacinque mesi uno dei più alti d’Italia, apparentemente non scalfito dalle turbolenze interne al suo partito e alla sua coalizione. Quando Luca Zaia divenne governatore, sull’onda di un plebiscito che valeva il 60% dei voti, il segnale di rottura era forte, ma politicamente ambiguo. La Lega, a livello nazionale, sembrava aver passato il suo zenit, il successo fu più personale che ideologico. Soprattutto, si era spezzato un lungo ciclo di crescita e di espansione, e il voto dei veneti esprimeva paura più che fiducia. Paura di perdere un benessere consolidato, di “tornare indietro”, ai tempi in cui Oderzo, Conegliano, Bassano, Castelfranco, Monselice non erano quei piccoli trionfi di una provincia sazia, bella e opulenta che sono ora, ma luoghi di relativa indigenza e arretratezza, da cui partire per non tornare. Quei tempi sono lontani, ma la sofferenza economica del territorio è fortissima, e in questi ultimi due anni si è aggravata in modo indicibile.
Inoltre, il presidente veneto è un’icona non solo del tradizionale elettorato conservatore, ma anche del mondo ambientalista conservatore raccolto intorno all’opposizione agli OGM, alla tutela del territorio dalla cementificazione selvaggia, alla vocazione agricola come nuova frontiera di un’economia in crisi. Non solo: Zaia ha rifiutato di identificarsi con le grandi famiglie ideologiche, ha dato alla sua candidatura un valore “civico” slegato dalla rigidità del sistema dei partiti.
3. Dice niente, tutto questo? La coincidenza con il programma del Movimento Cinque Stelle è notevole. A cosa può portare, è presto per dirlo. La precaria configurazione amministrativa del Nordest è emblematica: regione a guida leghista, le città capoluogo in mano a sindaci e politici (Zanonato con il probabile successore Ivo Rossi, Tosi, Gentilini, Variati...) che contano più su un consenso personale che sul colore politico dell’amministrazione, centri provinciali frazionati in un mosaico di promettenti ma isolati “casi” amministrativi del tutto acefali, ciascuno con un colore diverso, o addirittura senza colore. Se, in un possibile scenario futuro dove il movimento padano dovesse cambiare, trasformarsi, dividersi (e sono in pochi a scommettere sulla stabilità del sistema politico che uscirà dalle urne il 25 febbraio), la sofferenza del Nordest potrebbe trovare sbocchi imprevisti e creativi.
Il Veneto del 2012 non è la California del 1978, e lo sanno bene le migliaia di piccole imprese e di liberi professionisti che chiudono ogni giorno i battenti, per i quali il carico fiscale non è solo eccessivo, ma soprattutto iniquo e mal distribuito, pesando esso quasi soltanto sui “piccoli”, che già devono scontare i noti problemi dell’accesso al credito. Anche l’aura di libertarismo antistatale di trent’anni fa segna il passo, di fronte alla nuova richiesta di tutele e di sicurezze: nelle librerie, dicono le classifiche, i pamphlet più venduti sono “Non ci possiamo più permettere uno Stato sociale. Falso!”, di Federico Rampini; e “E’ l’Europa che ce lo chiede. Falso!”, di Luciano Canfora. Due titoli che parlano da sé.
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