Oggi è stato firmato il Trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance nell’Unione economica e monetaria. L’accordo introduce il c.d. “Fiscal Compact”, cui hanno aderito venticinque Stati membri. Hanno deciso di starne fuori la Repubblica Ceca e la Gran Bretagna, mentre l’adesione dell’Irlanda sarà decisa dagli elettori con apposita consultazione.

Questa nuova fonte pattizia nasce per volontà della Germania, allo scopo di obbligare i Paesi periferici a fare “i compiti a casa”, ossia a tagliare le spese e ridurre il debito pubblico. Alla base del Trattato vi è infatti la convinzione che la crisi attuale sia una crisi fiscale e che la ricetta da prescrivere consista innanzitutto nel foster budgetary discipline, appunto sull’esempio tedesco.

Di qui il Fiscal Compact contenuto nell’art. 3. Si tratta di una regola che impone il pareggio di bilancio a tutti gli Stati aderenti, a cui per evitarne l’aggiramento e il mancato rispetto dovrà essere dato rango preferably constitutional a livello di diritto interno: gli Stati firmatari dovranno quindi modificare le loro costituzioni e inserire una specifica disposizione al riguardo. Che si tratti di un successo della politica europea tedesca è fuor di dubbio e lo testimonia chiaramente una lettera confidenziale di metà gennaio scorso spedita alla Commissione Bilancio dal Sottosegretario alle Finanze Steffen Kampeter (CDU): “la Germania ha ancora una volta fatto esplicito riferimento alla decisione dei Capi di Stato e di Governo del 9 dicembre 2011 in favore di un’introduzione della regola a livello costituzionale”.

In più, la Germania ha anche raggiunto l’obiettivo di assegnare un ruolo di primo piano alla Corte di Giustizia del Lussemburgo per assicurare l’effettività della norma “frena-debiti”. A questo proposito, sempre nella lettera di Kampeter si legge che alla Corte si è voluto attribuire il potere di imporre sanzioni finanziarie allo “Stato membro che non applichi o applichi in maniera insufficiente le regole di disciplina fiscale a livello di diritto interno”, sulla base di espressa denuncia presentata da uno Stato firmatario (e non dalla Commissione europea, che può soltanto vigilare sull’osservanza da parte dei Paesi contraenti del vincolo di bilancio previsto dall’art. 3 del Trattato).

Altro aspetto fortemente voluto dalla Germania e sancito nell’accordo è la regolamentazione degli aiuti finanziari ai Paesi periferici. Nel Preambolo del Trattato è previsto il cd. “principio di condizionalità”, mantra della gestione della crisi targata Merkel-Schäuble, in base al quale uno Stato in difficoltà può ottenere crediti-ponte nella misura in cui si impegni ad attuare le riforme necessarie per recuperare competitività. Nel caso di specie, è stabilito che “the granting of assistance in the framework of new programmes under the European Stability Mechanism will be conditional, as of 1 March 2013, on the ratification of this Treaty by the Contracting Party concerned”.

Infine, l’unione economica e fiscale è lasciata meramente sullo sfondo (art. 9) e in materia economica e di bilancio non si approda a un vero trasferimento di competenze in capo ad istituzioni sovranazionali, come invece avevano chiesto socialdemocratici e verdi tedeschi.

Resta da capire se le disposizioni contenute nel Trattato, di per sé simili a quelle racchiuse nel pacchetto di regolamenti e direttive approvato in autunno (il c.d. Six Pack), siano anche in grado di modificare la prassi più che decennale che ha visto gli Stati membri non tenere in minimo conto i criteri per mantenere un indebitamento sostenibile. La sensazione è che si tratti di una versione rimaneggiata e più severa del Patto di Stabilità e Crescita (PSC), che però poteva però vantare una base giuridica nel diritto Ue. Invece, in ragione dell’opting-out inglese e ceco, nel caso del nuovo accordo ci troviamo di fronte a una fonte del diritto estranea all’ordinamento dell’Unione, per nulla equivalente al Trattato di Lisbona sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) e al Trattato di Maastricht sull’Unione Europea (TUE). Un Trattato, quindi, che non può modificare poteri e competenze degli organi disciplinati dai primi due, pena violare il divieto di aggiramento.

Ecco perché non si è potuto attribuire direttamente alla Commissione il potere di trascinare in giudizio gli Stati membri indisciplinati, ma ci si è affidati alla regola che siano i singoli Stati membri a denunciarsi vicendevolmente. E non è poi chiaro quale organo dovrà imporre il rispetto delle sanzioni eventualmente irrogate dalla Corte di Giustizia.

Se così stanno le cose, è allora assai probabile che la realizzazione da parte dei paesi periferici degli obiettivi di una maggior disciplina di bilancio e dell’attuazione di riforme in grado di rilanciare la competitività passerà per lo più dalla soft governance. Sin dal 2011, strumenti quali il “Semestre Europeo” e il “Patto Euro Plus” fungono da cavallo di Troia per realizzare un coordinamento delle politiche economiche in grado di vincolare gli Stati verso il raggiungimento di una serie di obiettivi stilati dalla Commissione e dal Consiglio europeo, e fortemente voluti dalla Germania, quali il decentramento della contrattazione collettiva, la rimozione di barriere all’ingresso in determinati settori commerciali e professionali, la promozione di sistemi di welfare di cosiddetta flexicurity, l’abbassamento della componente fiscale sul lavoro e l’allineamento delle pensioni alle aspettative di vita.

Pur condivisibile nel fine, che è quello di stringere i cordoni della borsa a quegli Stati che nell’ultimo decennio hanno alimentato senza limite la spesa pubblica (Grecia, Italia e Portogallo), il Fiscal Compact pecca però di eccessivo ottimismo, per tre ragioni:

  • non è sufficiente inasprire regole e sanzioni per ottenere che esse vengano improvvisamente seguite;
  • la crisi è figlia di uno squilibrio commerciale esploso per il differenziale di competitività tra gli Stati membri della periferia e gli Stati del nord Europa (in Irlanda e Spagna, la crisi è originata del debito privato, non da quello pubblico);
  • infine, anche immaginando che sia il migliore dei testi possibili, il Fiscal Compact incorrerà verosimilmente in serie difficoltà applicative, dovute alla sua natura ibrida di trattato estraneo al diritto Ue.